FRANCESCA GIULIANI | Niente. Acsè. Niente di niente. Non resta niente. Le menzogne l’unica realtà possibile. La solitudine il solo spazio vivibile. Il corpo trasandato, la mente vacillante, i nervi incontrollabili, il solo pagamento riscuotibile. I ricordi affannati di amori delusi, di famiglie distrutte, di vite sprofondate in quell’abisso famelico che è impossibile saziare, la sola fine immaginabile. La slot l’unica luce, l’unico suono, l’unico mondo, l’unica amica, l’unica innanzi a se stessi, la sola realtà riconoscibile, la sola sfida possibile. Nella sala VulKano di San Bartolo (RA) il Teatro delle Albe ha riadattato Il Giocatore, opera ispirata all’omonimo romanzo di Fedor Dostoeswkij riscritto dal regista Marco Martinelli attraverso il racconto di un contadino romagnolo di oggi dipendente dal gioco d’azzardo. Dell’opera, commissionata dal Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A.Belli” dove ha inaugurato la stagione nello scorso anno, resta una parte del dittico quella interpretata da Alessandro Argnani, impeccabile nel ruolo di giocatore di fronte all’ultima scommessa. La scena è un antro scuro. File di cipressi in miniatura fuoriescono dalla penombra, tagliati da alcuni fasci di luce che a poco a poco si spostano sul protagonista. Il baratro in cui il corpo giace, illuminato da luci fioche, è tempestato da suoni (le musiche sono scritte da Cristian Carrara) che sembrano trascinarlo sempre più a fondo mentre lui stesso si sussurra parole infamanti tra i denti. Quei suoni, rimembranti le voci che continuano a percuotergli la testa fin dentro quella tomba senza dargli pace, avvolgono lo spazio e il suo silenzio, il suo girovagare immobile tra quei ricordi, tra quelle risa. È stato gettato li, ci dirà, vivo in una fossa. Disteso su uno scuro parallelepipedo dietro al quale fa da fondale un grande specchio che riflette l’immagine mantegnesca di un cristo morto, il giocatore inizia a dimenarsi, sempre più convulsamente, come se volesse uscire non solo dal baratro in cui è sprofondato, ma da quel medesimo corpo che lo ha costretto a giocare, a puntare. Prima i cavalli. La trasferta in città sembrava elegante, la vittoria era imminente. Poi il bar e l’autoannullamento davanti a una slot machine nell’attesa del bonus. Le galline e le mele che anche fuori dalla sua campagna continuano a scorrergli davanti agli occhi. La Sfinge e l’Egitto, sono il mondo nuovo e inesplorato, sono misteri da svelare e tesori da ricercare. Nel racconto affannato, a tratti sussurrato, l’attore sembra rincorrere anche nello stesso girovagare immaginario intorno alla fossa quelle parole per subito abbandonarle. A ogni emozionante giocata si sussegue l’imminente perdita, ai tasti che martellano un trattore che si vende, alle monete che tintinnano delle terre che si liquidano, alla nuova giocata dei soldi che ancora mancano, finanziarie che arrivano, aguzzini che non perdonano. Gli specchi e la propria immagine sola di corpo che lentamente si trasfigura, ondeggia quasi perdendo la forma umana, sono l’unica cosa che c’è e resta sulla scena durante l’inteso racconto di questa irrimediabile e inquietante disfatta. Nella campagna romagnola, fatta di lavoro e sogni di città, di coltivazioni e di quotidianità si aggroviglia la vita del giovane contadino che seguendo le scie della famiglia si perde nella delusione di una vita che non sente sua. Ma quel fallimento che inizialmente sembra solo personale, si tramuta ben presto, in un dichiarato fallimento civile, nel fallimento politico e culturale di una nazione. È l’Italia, il bel paese, che continua a giocare scommettendo sul vacillare delle vite dei suoi cittadini e si sostiene su quello che condanna come vizio nocivo per la salute.
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