VINCENZO SARDELLI | Georges Simenon, un romanziere capace di tracciare suggestivi ritratti psicologici e di evocare con efficacia l’atmosfera grigia e stagnante della provincia francese. Che succede se un suo testo viene messo in scena da un regista classico come Giuseppe Scordio, e da una coppia di attori agli antipodi (per età e percorsi) come Massimo Loreto e Sonia Burgarello?
È tutto un flashback Lettera al mio giudice, in scena per il secondo anno allo Spazio Tertulliano di Milano. Charles Alavoine, stagionato medico di campagna responsabile della morte della giovane Martine, scrive al giudice Ernest Coméliau per fargli comprendere le ragioni del suo gesto. Ha ucciso per «liberare la sua amante da un passato vergognoso che ostacolava il loro amore».
Charles è un uomo senz’ombra, ma soprattutto senza qualità. Si è lasciato a lungo calpestare dalle circostanze: una madre ingombrante, due matrimoni per convenzione, due figlie non desiderate. Ogni tanto Charles evade, fughe velleitarie verso una vita diversa. Poi l’incontro con Martine.
I palpiti dell’amore si uniscono ai singulti della morte. Due solitudini si riconoscono e s’incastrano in maniera mortifera. Essere felici e soffrire. Gelosia, senza raziocinio né scampo: «Il grande problema, quello cruciale, era capire perché ci amavamo».
Tormento e amarezza. Lettera al mio giudice è romanzo paradossale. Protagonista è un medico, ma con il mal di vivere. Per mestiere Charles dovrebbe restituire la vita agli altri. E invece la toglie, persino a se stesso.
Scordio rilancia la scommessa di Simenon: raccontare una vita non attraverso la classica narrazione dei fatti, bensì per mezzo di una confessione. L’adattamento teatrale non intacca una storia densa di passione, affilata come una lama. Intensità, esaltazione, violenza. È una lettura serrata, sofferta e accorata, che focalizza le sfumature psicologiche dei protagonisti. Si alternano passato e presente, soliloqui, dialoghi, narrazioni fuori campo.
La scenografia a pannelli scorrevoli (c’è lo zampino di Michelangelo Zeno) crea interni mutevoli come gli stati d’animo, mobili come la vita: la cella fredda di un carcere, le atmosfere fumose di un albergo, quelle sognanti di una stazione, o calde di un’alcova. A dominare su tutto è quella zona d’ombra che appartiene al protagonista, angolo oscuro dove va a rifugiarsi la libertà frustrata.
Alessandro Tinelli (alle luci) tira fuori tutto il nero che si cela nell’anima in bilico tra felicità desiderata e baratro esistenziale. Domina il torpore, un vuoto che è vertigine, sottolineato dalle elaborazioni musicali di Marco Pagani.
Buono il lavoro sui personaggi. Un’angoscia profonda porta Martine a darsi impulsivamente. Brava Sonia Burgarello, affascinante e istrionica, sprovveduta e ammiccante. Balla con movenze sinuose. Oppure gioca nervosamente con i capelli. È la doppia personalità di Martine: donna sicura e forte, ma anche giovane abbandonata e sfruttata.
Massimo Loreto tarda a trovare la temperatura giusta per il suo personaggio attempato, goffo, sovrappeso. Poi si libera, rinasce sulle note jazz di C’est si bon, sui particolari del viso e del corpo di lei che lo seducono e coinvolgono in una passione distruttiva per entrambi: «Non sapevamo dove stavamo andando ma non potevamo andare altrove».
Emerge un sentimento doloroso e divorante. Le musiche di Peter Gabriel da L’ultima tentazione di Cristo, ibridi raffinati che rilevano il conflitto interiore, creano atmosfere rapite. L’iniziale lamento senza tempo, tetro e surreale, diventa coinvolgente. Il climax percussivo scuote la pièce e l’attenzione dello spettatore. Una regia essenziale, che non osa in coefficiente di difficoltà, ma ispirata e partecipata, da non farci accorgere che in fondo si tratta di un corpo estraneo a un’opera fatta per la lettura.