RENZO FRANCABANDERA | Dietro un velo che dovrebbe nascondere l’interprete dall’intimità con il pubblico ma che in realtà non protegge né la protagonista né gli spettatori dallo scambiarsi sguardi e intese ambigue, Natascia Curci abita un interno da fine anni Settanta-inizio Ottanta per “Figli senza volto”, nuovo spettacolo di Animanera, collettivo artistico milanese attivo da anni in un’area fra il performativo e il teatrale.
Dopo gli spettacoli con i testi di Magdalena Barile, l’ultimo triennio, con le residenze al Pim Off e ora al CRT, ha portato ad una nuova evoluzione del linguaggio della compagnia, che sta coincidendo con una maturazione e un affinamento estetico assai significativo.
In particolare uno stimolo notevole a questa evoluzione è arrivata dall’interesse per la tematica degli anni di piombo e il confronto con quel tempo, che per i sodali di Animanera è coinciso con il tempo dell’infanzia/gioventù, quindi un’epoca del ricordo evanescente, della realtà vissuta con la mediazione della consapevolezza adulta altrui, spesso affioranti con qualche documento audio video delle teche RAI, ritagli di giornale nei cassetti o negli scatoloni di qualche parente attento e documentato.
E così inizia, con una scatola dei ricordi, da cui affiorano foto bianco e nero di volti in primo piano e ritagli di giornale, in un interno, pochi metri quadri, pareti bianche, un tappeto, un giradischi e una tv di quegli anni. Dei 33 giri. Un posacenere. Una mela. Interno bianco con donna. Anche lei vestita prima con un lungo maglione di tonalità fredda. Questa la scena, realizzata da Valentina Tescari, con i costumi di Lucia Lapolla.
Non un bianco e nero, ma verrebbe da dire una foto seppia, che ritorna dagli archivi della memoria. A questo effetto contribuiscono in maniera essenziale altri due ingredienti della costruzione scenica, ovvero le luci di Beppe Sordi e i suoni ripetitivi, ticchettii incessanti di Antonio Spitaleri. Due elementi che interagiscono praticamente in tempo reale con la recitazione di Natascia Curci, interprete e co-regista dello spettacolo con Aldo Cassano.
Lo spettacolo, dal punto di vista drammaturgico, è una sorta di ampliamento di “Come voi”, adattamento teatrale del racconto di Ida Faré Come voi, pubblicato in Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). L’autrice del testo, ai tempi giornalista de Il Manifesto, ha pubblicato anche Mara e le altre, e dopo la prima messa in scena di Animanera su una versione più strettamente legata al suo racconto ha deciso con la compagnia di approfondire e ampliare il dato testuale per arrivare ad una nuova drammaturgia, affidata sempre al corpo della Curci.
Una femminilità, quella che l’interprete regala alle parole, che per larga parte della messa in scena è quasi performativa, e si completa, nella sua descrizione, con gesti, sguardi, piccole azioni.
Ne viene fuori una ricca e interessante azione attorale, in cui la Curci cresce con lo spettacolo, forse più incline alle sfumature della seconda psicologia femminile fra le due raccontate, quella per così dire “sovversiva”. Infatti nei 50 minuti di spettacolo i pochi spettatori ammessi al di qua del velo, osservano e sono osservati da una donna che a lungo descrive una sua sostanziale adesione agli schemi della società di cui siamo parte.
E’ poi pian piano che questa donna, attraverso una metamorfosi di vesti ma anche psicologica, arriva a rivelare la sua altra identità. In questo tempo lo spettatore riflette su di lei, su di sé, sul proprio tempo, sulla meccanica che lo caratterizza e lo domina, in cui ognuno di noi si sente un po’ pollo nella batteria del produci – consuma – crepa. E anche non sentendosi terroristi in nessun modo, e anzi nonviolenti come la gran parte degli spettatori immaginiamo sia, quasi si prova una strana nostalgia non per quella pazzia, ma per il solo sogno adrenalinico di poterla avere.
Stamattina, mi sono alzato e mia figlia di 2 anni mi ha raccontato di aver sognato il gatto con gli stivali.
Ecco, questo spettacolo prima di tutto e nell’assurdità di aver di fronte un personaggio da cui per la gran parte siamo distanti, ci mette davanti ad una frustrazione, all’impossibilità di sognare quella segretissima e inconfessabile, digitalmente a quei tempi invisibile, folle idea di poter cambiare la società a proprio desiderio. Fosse anche in modo ghandiano, nonviolento. Un pensiero che il nostro tempo ha affidato al pensiero debole, con la Coca Cola che ruba in un suo spot (che lo spettacolo riprende) le immagini delle rivolte studentesche degli anni settanta per addomesticarle alle bollicine. E l’onnipresenza social, le celle a cui siamo agganciati passo dopo passo con il cellulare in tasca, le mille telecamere, il mondo orwelliano di cui siamo prigionieri, a salutaci con un pollice blu levato. E tutto ci appare irrimediabilmente irreversibile e ineluttabile. Senza poter nemmeno non dico fare, ma nemmeno tifare per una rivolta credibile. Ma anche incredibile. Neanche per un gatto con gli stivali.