MATTEO BRIGHENTI | Il tempo nel Belpaese è un boomerang: non passa, torna indietro. L’asino albino di Andrea Cosentino ha 11 anni, eppure i ‘tour del dolore’ prosperano ora come allora, la memoria non è ancora condivisa ed è rinata anche Forza Italia. Si tratta quindi di un lavoro a tutt’oggi contemporaneo perché accade e vive sempre nella stessa realtà, come due treni perfettamente paralleli: l’uno è fermo in relazione all’altro, da entrambi si vede la medesima cornice di cielo e terra. Non è questione di distanza, velocità o lungimiranza, ma di cosa guardare, se il panorama o il vetro del finestrino. Cosentino sceglie il vetro, lì dove, tra i graffi e lo sporco, il suo occhio aguzzo e disincantato riesce a scorgere l’immagine riflessa di chi è in carrozza con lui. Cioè tutti noi.
Siamo agli albori del teatro del drammaturgo, attore e regista, nato a Chieti nel 1967. Prima di Esercizi di rianimazione, di Not here not now, ma pure prima di Angelica. E in un’alba amniotica è immerso lo spazio scenico de L’asino albino, un cerchio in ferro e cose sparse per terra, occhiali da sole, cappello, bandana, macchina fotografica, settimana enigmistica, una stanza dei giochi da rimettere in ordine, la sala parto di una raggelante estate al mare. Cosentino si immagina guida e, insieme, gruppo di turisti sull’Asinara, l’isola che è stata anche lazzaretto, campo di concentramento, carcere di massima sicurezza. Ogni carattere viene restituito al pubblico attraverso il suo accessorio, il ‘campo di forza’ in cui la parola si prende il corpo dell’attore, che risuona nel semplice uso dell’oggetto, come le note del theremin sono prodotte dal solo movimento delle mani: il mare, la spiaggia, i detenuti non si vedono, ugualmente si sentono, si percepiscono, si annusano.
Tra i visitatori, c’è la coppia che chiama al telefono l’amico malato terminale per raccontargli quanto la vacanza sia straordinaria, c’è il bambino che riconosce gli animali solo quando sono morti spiaccicati sotto le macchine, c’è l’intellettuale che propone di rieducare i pedofili castrandoli e facendoli cantare l’inno di Forza Italia in un coro di voci bianche. “Come ti può piacere una bambina? È piatta!” E poi: “I carcerati qui non se la passavano tanto male.” Caricature delineate a pennellate visibili dalla prima all’ultima fila, grosse, spessore diverso dal grossolano. L’ironia di Cosentino, infatti, non è di superficie né consolatoria, è tagliente, arriva al fondo della cattiveria divertita di chi non ha occhi aggrappati che a sé, in una coazione a ripetersi che le proprie sono le uniche ragioni possibili. L’insensibile ignoranza dell’essere.
Sui volantini che pubblicizzano quel giro panoramico della spudoratezza è riprodotto un asino albino, specie endemica all’Asinara e dalle origini misteriose. L’animale è la materializzazione del finale che l’attore cerca fin dall’inizio dello spettacolo, il miraggio di capire chi siamo e dove realmente ci troviamo, di annullare le differenze tra marito e moglie o tra fidanzati come quelle tra Storia e presente. Di chiedere scusa a papà per il tempo perso a inseguire i sogni, che Cosentino ripone tutti in un tamburo alle sue spalle, insieme agli oggetti della sua immaginazione. E poi via. Verso un’altra isola per recitare in controluce alla vita. Perché il giorno conduce inevitabilmente alla notte. Puoi solo mentire che non sia così.
L’asino albino di e con Andrea Cosentino; regia: Andrea Virgilio Franceschi; collaborazione artistica: Valentina Giacchetti; primo spettatore: Antonio Silvagni; oggetti scenici: Ivan Medici. Visto all’Officina Culturale Via Libera, il Quadraro, Roma, il 14 febbraio.