ELENA SCOLARI | Karl Rossmann sbarca in America dall’Europa a sedici anni, spedito dai genitori in seguito a uno scandaletto familiare, viene affidato alle cure dello zio, proprietario di una ditta di spedizioni, negli Stati Uniti da tempo e “arrivato” nel campo degli affari. Karl dovrà trovare un lavoro e cavarsela in un paese straniero, destreggiarsi tra incontri con compagni più furbi di lui e si troverà frastornato in un caleidoscopio di strambe avventure, che solo Kafka avrebbe potuto immaginare, in un luogo (gli U.S.A.) dove lo scrittore non è mai stato.
Lo spettacolo è un riallestimento della prima versione di circa dieci anni fa, mantiene le scenografie di Emanuele Luzzati, una linea di porte di legno che continuamente si aprono e chiudono su stanze infinite, sulle cabine di una nave, su labirinti metaforici e non.
L’idea è quella di rendere la messinscena una sorta di musical tra le note jazz di Scott Joplin, suonate dal vivo da tre musicisti che stanno sotto il palco, e alcune canzoni cantate dall’attrice Carla Ferraro, che sottolineano l’aspetto “giocoso” dell’America. In realtà questa scelta si affievolisce a metà spettacolo e il contrappunto musicale perde il suo ruolo di accompagnamento.
Questa volta non avevo studiato, sono andata a vedere lo spettacolo, per la regia di Maurizio Scaparro, senza conoscere il romanzo – incompiuto – da cui è stato tratto. Ho riparato leggendo “America” dopo, ho voluto farlo perché avevo il sospetto che la riduzione operata avesse davvero “ridotto” il testo, non solo con i tagli necessari alla traduzione teatrale. In effetti il sospetto è stato confermato: il libro di Kafka è pieno di atmosfere stranianti, di situazioni assurde, di particolari piccoli ma importantissimi per capire il personaggio del protagonista. Lo spettacolo banalizza assai, mostra il buon Karl (Giovanni Anzaldo, il giovane pasoliniano de “Il capitale umano” di Virzì) come un ragazzotto ingenuo e un po’ tonto, che assiste, cinematograficamente, al succedersi di quadri più o meno inaspettati, trascurando la caratteristica principale di Karl: un fortissimo senso della giustizia.
Il titolo originale del romanzo era “Il fuochista”, la storia si apre infatti sulla nave, già entrata nel porto di New York, e conosciamo Karl Rossmann per la sua accesa difesa dei diritti del fuochista presso il capitano. Il lavoratore ha dato fiducia e ha confidato la sua frustrazione allo spaesato ragazzo europeo, che prende subito a cuore i suoi interessi e, per un caso (kafkiano, sempre una questione di porte aperte per errore) finisce a pronunciare un’arringa in suo favore davanti ai superiori, un discorso sincero quanto azzardato che ci serve per capire l’indole del protagonista. E in questo contesto troverà, ancora per caso, lo zio (Ugo Maria Moroso). Di tutto ciò nello spettacolo non c’è traccia. Così come di molti altri elementi, pesantemente semplificati da un adattamento che impoverisce invece di esaltare.
La buona interpretazione degli attori, non restituisce la sensazione appiccicosa, opprimente, un po’ inspiegata, lo stordimento tipico delle atmosfere di Kafka, non emerge nemmeno la stranezza del rapporto tra i due compagni di Karl, il francese Delamarche, disonesto e prepotente, e l’irlandese Robinson, sottomesso e un po’ stupido.
Trasferire la genialità letteraria un po’ ossessiva di Kafka in scena non è facile, certo, ma se il suo romanzo trasporta davvero il lettore in un’America onirica, felliniana anche se poco invitante, la nave/spettacolo di Scaparro non si allontana dal porto. Viaggio incompiuto.