FRANCESCA GIULIANI | Davanti a lei solo un microfono. Come una presentatrice televisiva si muove elencando a ritmo di un travolgente flamenco le caratteristiche salienti del personaggio che prenderà in esame. La gonna nera di piume svolazza, i tacchi alti e luccicanti risuonano, il corpetto colorato spicca sul palco vuoto. È Valeria Raimondi che narra in scena la genesi del recente lavoro di Babilonia Teatri visto all’apertura della stagione TeatrOltre al Teatro Sperimentale di Pesaro. Jesus, che dovrebbe essere non solo il titolo dello spettacolo ma il protagonista stesso di questa storia, si trasforma ben presto nel simulacro ideale di un racconto. Del resto parlare di una superstar di questo calibro non è facile. La fiaba è fin troppo nota, le parabole si sprecano, i luoghi in cui si manifesta sembrano indistinguibili, gli aggettivi che lo sostantivizzano appaiono come difficilmente enumerabili. Alle domande “Chi è Jesus?” e “Dove cercarlo?” le risposte si fanno infinite fino a ridursi quasi semplicemente in un tutti e un ovunque incalcolabili. Miriadi di santini di Gesù che stringe fra le braccia un agnello vengono sparati dalla platea sul palco inondando l’attrice che scende fra il suo pubblico. Ma poi si blocca. E il registro dello spettacolo cambia. Dopo aver ricostruito quell’immaginario culturale infarcito di luoghi comuni, di catechesi imposte, di croci ovunque, di papa boys e mercificazioni religiose, di paure accecate dalla speranza in un aldilà, l’attrice sembra gettare la spugna. Con intensa sincerità svela il blocco artistico sopraggiunto. Poi la svolta. Ettore, il figlio di 3 anni, sembra riaccendere il pensiero. È lui che, ci svela l’attrice, davanti al presepe chiede alla madre se quel bambinello è lo stesso che è posto anche sulla croce. “E quindi muore? Noi moriamo? Perché si vive?”. La domanda sembra un affacciarsi nuovamente a quel tema già attraversato dalla compagnia ma probabilmente non chiarito fino in fondo. La memoria va subito a The End, dove protagonista è la morte e la sua rimozione nella società contemporanea. Anche qui c’è la visione fisica di un presepe che viene costruito in scena sovrapponendo la natività alla passione. È la stessa Valeria Raimondi che avvicina alla crocifissione la testa del bue e dell’asinello estratte da un frigorifero che, vuoto, resta come unica fonte di luce riflettente sul palco. Da qui sembra ripartire idealmente Jesus, da questa tragedia fattasi pop nella netta separazione della culla da quella fine che nella frenesia del vivere ci neghiamo, paghi di quella vita ultraterrena che ci è stata promessa. Ma se in The End l’attrice rimontava davanti agli occhi dello spettatore i pezzi di un crocefisso che poi issava al centro del palco smontando totalmente l’illusorietà dell’atto teatrale, qui la cruente immagine è sostituita da un agnello sacrificale che penzola dal soffitto farcito con patate crude sparse sul palco. E se là era la violenza del dire a esorcizzare il difficile tema trattato, qua la cantilena di parole infarcite di nomi, simboli, tratti che caratterizzano il pensiero comune intorno a una religiosità si rafferma ancor di più in quel credo sussurrato che sembra trovare nella “misticità” una personale risposta a quella ricerca che ha mosso lo spettacolo. Lo scarto probabilmente affiora proprio nel momento in cui quel monologo iniziale di Jesus, così simile al diluvio di parole tra italiano e dialetto veneto che caratterizzava The End, non è più l’attrice a farlo attraverso la messa in corpo e azione di figure non sovrapponibili a personaggi definiti ma attraverso se stessa e il proprio vissuto. Se da una parte, quindi, la compagnia torna con questo lavoro al precedente non solo per la tematica ma anche per la tipica struttura accumulativa che costruisce immagini attraverso quel blob perfetto di parole e musiche che caratterizza il loro linguaggio performativo, è vero anche che in Jesus la potente “denuncia sociale” che faceva da sottofondo allo sviluppo drammaturgico iniziale si disfa in immagini che traducono una sorta di commovente rassegnazione che mancava completamente nei precedenti lavori. Fino all’atto finale: il palcoscenico si oscura, solo la scritta gigante Jesus rimane accesa a fare da piedistallo luminescente, al nudo abbraccio danzato di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani che sembra sussurrare: “Ecco cosa ci resta, Ettore!”.
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