SIMONA POLVANI | Dove inizia una storia? Che cosa è davvero una banca? Sono due delle domande che solleva la Lehman Trilogy – I capitoli del crollo, l’opera teatrale che Stefano Massini ha dedicato alla ricostruzione dell’epopea della Lehman Brothers, colosso statunitense della finanza tristemente noto ai più in quanto tra i responsabili della crisi dei subprime che, in un domino perverso, scatenò il crack finanziario del 2008 – da cui la Lehman fu travolta, fallendo-, con il conseguente collasso dell’economia mondiale.
Massini, con un ampio lavoro di documentazione, risale alle origini della storia della banca, raccontando l’avventura umana dei tre fratelli Emmanuel, Henry e Mayer Lehman, ebrei tedeschi sbarcati prima della metà dell’ottocento uno dopo l’altro a New York dalla Baviera e approdati in Alabama. Da un piccolo emporio di stoffe, grazie a intuizioni e intraprendenza fuori dalla norma, riuscirono a creare un impero economico, trasmesso alle generazioni di figli e nipoti. Parteciparono a disegnare il volto degli Stati Uniti, dalla costruzione delle ferrovie fino allo sbarco sulla luna, incarnando, fino al declino nel 2008, il sogno americano dei men self made.
Dopo un reading della seconda e terza parte a Los Angeles e l’allestimento dell’opera integrale lo scorso anno a Parigicon la regia di Arnaud Menier, – uno dei grandi successi della stagione teatrale francese – Lehman Trilogy, nel frattempo pubblicata da Einaudi, è attualmente in scena al Piccolo di Milano (repliche ancora a maggio dopo questo round che termina il 15 marzo) ultima regia, come noto, di Luca Ronconi da poco scomparso, con un cast che riunisce alcuni tra gli attori faro del teatro italiano. Via skype, ho incontrato Stefano Massini, per capire meglio con lui la costruzione di questo affascinante testo, dai plurimi linguaggi – l’yiddish ne scandisce il ritmo –, stili e orizzonti.
Che cosa ti ha spinto a scegliere le vicende della Lehman Brothers come soggetto teatrale? Sin dall’inizio avevi deciso di affondare nel passato, risalendo fino alleorigini?
Ho deciso di scrivere sulla Lehman Brothers nel momento in cui mi reso conto che quando leggevo il giornale saltavo le pagine dell’economia, perché erano le più difficili e le più criptiche. Ho sentito che quel gesto, che probabilmente era mio e di tanti altri, nascondeva da una parte la mancanza di strumenti per conoscerle, dall’altra proprio il bisogno di parlarne. Il teatro è un luogo di conoscenza. Mi sono domandato, allora, se scrivere un testo sull’economia e sulla banca che fallendo aveva aperto la nostra crisi, avrebbe potuto permettere a molte altre persone di interessarsi di economia. Ho pensato che l’unico modo sarebbe stato di comprendere come l’economia è umana. Studiando il caso della Lehman Brothers ho capito inoltre che ciò che mi interessava meno raccontare era proprio il fallimento. Al contrario, ho voluto raccontare la storia della Lehman perché la storia “è” il fallimento: se al suo fallimento è stato assegnato un ruolo così importante è stato infatti perché era una banca che esisteva da 160 anni. Quando in seguito ho scoperto che la sua storia era anche la storia della civiltà occidentale degli ultimi 160 anni, ho sentito ancora di più il bisogno di dedicarmi alla scrittura diquesta grande saga.
Ampio spazio è dedicato alla crisi del 1929, mentre la crisi del 2008, come accenni, è solo sfiorata. Alla fine della pièce tutti i Lehman, riuniti e già defunti, sembrano assistere impotenti al loro funerale, vittime, così come il resto del mondo, di scelte fatte successivamente da altri.
Ho cercato di non trattare la crisi dei subprime perché, come tutta la finanza mondiale, la Lehman Brothers ha avuto due fallimenti. La crisi del 1929 e l’ultima del 2008. Le cause di entrambe per gran parte sono identiche, per cui ho deciso di raccontare con molta dovizia di particolari quella del ’29 facendola rispecchiare nella crisi del 2008. Mi premeva sottolineare che fondamentalmente la crisi del 2008 è nata nel momento in cui le banche hanno raggiunto il massimo della loro spersonalizzazione. Ciò è particolarmente evidente con la Lehman Brothers. L’ultimo discendente della famiglia a portare il cognome Lehman è stato Bobby, morto nell’68, a cui è dedicata la terza parte della Trilogia. Egli si trova ad assolvere un compito più grande di lui: evitare che si ripetano le condizioni che avevano portato alla crisi del ’29, ma non ci riesce. Dopo di lui la Lehman Brothers finisce. Nella parte conclusiva dello spettacolo, così com’è avvenuto nella realtà, assistiamo alla dispersione totale del patrimonio familiare. La storia si ingrigisce, per cui è vero quando dici che i Lehman patiscono la fine di quella che fu la loro banca, distrutta da un branco di squali, come se assistessero ad un funerale, al loro funerale.
In che modo il reale presente, legato ad avvenimenti socio-politici dell’oggi, diventa materia teatrale, sottraendosi alla cronaca?
Dipende sempre dalla forma. Farò una premessa. Credo che la scelta di un tema contemporaneo, sempre vissuta come un elemento di rilevanza e di coraggio per un drammaturgo, in realtà non lo sia affatto. Continuiamo ad essere così marchiati da Bertold Brecht, da considerare l’impegno civile – termine orrendo-, da solo, come un passaporto di qualità per un drammaturgo. È l’esatto opposto. Innanzi tutto si dovrebbe ragionare del fatto che – come diceva Aristotele – tutto è politico perché ha che a fare con la polis, la comunità. Indipendentemente da ciò, reputo che proprio se un drammaturgo sceglie un tema politico debba essere assolutamente sicuro della forma artistica attraverso cui lo tratta, perché tale scelta non diventi solo consolatoria e una colossale furbata.
Parlando della forma, hai scelto da una parte uno stile narrativo per cui i personaggi agiscono non incarnandosi ma raccontandosi in terza persona, salvo in alcuni brevi ed efficaci dialoghi, dall’altra una scrittura in versi.
Nella storia dell’arte, soprattutto nel campo delle arti figurative classiche, si è ormai affermato il concetto di post-moderno, per il quale essendo già stata sperimentata ogni rottura dei linguaggi, la rottura, per se stessa, non è più considerata una forma espressiva, ma una delle forme espressive. Ciò fa sì che in qualche modo ormai nelle arti figurative l’opera comandi sul genere: non esiste più il genere entro il quale collochi le tue opere, ma esiste l’opera. Spesso mi trovo a mio agio con un tipo di scrittura che ha come esito non un’opera teatrale ma un materiale scenico, che rimetterò nelle mani di chi metterà in scena, il quale opererà le sue scelte, troverà i suoi modi di muoversi dentro quel materiale.
Donna non rieducabile, su Anna Politkovskaja, che ha il sottotitolo di Memorandum teatrale, è un testo che fino a questo momento è stato rappresentato nel mondo in circa sedici versioni diverse. In Italia è andato in scena come monologo, con Ottavia Piccolo, e come testo per due attori, un uomo e una donna. In Germania fu interpretato da otto attori, in Spagna da tre. In Francia è stato realizzato come monologo, recentemente da Anne Alvaro, ma è stato rappresentato anche, dalla Compagnia del Teatro di Limoges, con un cast di nove attori, mentre in Belgio è stato interpretato da tre donne. Quindi, è lo stesso identico testo, che essendo però un materiale, offre ampia libertà di scegliere come farlo e come portarlo in scena, rompendo anche quel meccanismo altrimenti bloccato del teatro che è il dialogo.
Mi tengo molto stretta l’idea di testo materiale, perché se da un lato è molto complessa, dall’altro è molto aperta. Nella trilogia si realizza proprio il trionfo di questo principio. Si tratta infatti di un testo anarchico dove il dialogo lascia spazio alla narrazione in terza persona, la narrazione alla cronaca, la cronaca alla poesia, la poesia, addirittura, a tratti, alla commedia, all’epica e alla tragedia. Quando Ronconi per la prima volta lesse la trilogia, mi disse: nella terza parte, quella dedicata a Bobby, il testo diventa una tragedia shakespeariana.