LAURA NOVELLI | Jon Fosse (classe ’59) è il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo dopo il conterraneo Henrik Ibsen. Insieme con lo svedese Lars Norèn, rappresenta la punta di diamante della scrittura teatrale di area scandinava e direi europea. Mi ha sempre colpito il fatto che i personaggi delle sue opere (ricordiamo almeno Qualcuno arriverà, E la notte canta, Sogno d’autunno, Inverno, La ragazza sul divano, Sonno, Variazioni di morte, Un giorno d’estate) solo in rari casi abbiano un nome. Per lo più egli si accontenta di definirli in modo vago, assegnando loro un’età, un sesso, una declinazione materna o paterna. Come se, nello scolorire odierno di ogni certezza e di ogni appiglio esistenziale, sbiadisse giocoforza anche il valore dell’identità.
Un punto di partenza per entrare nel cuore di questa scrittura – fatta in realtà di un linguaggio negato, di azioni sospese, di un tempo esso stesso indefinito e immobile – credo sia proprio il tema, comune a tanta drammaturgia contemporanea, della crisi dell’identità propria dei nostri tempi. Fosse ne parla però senza nostalgia, come un semplice dato di fatto. Motivo per cui se nei suoi lavori (alcuni dei quali negli anni scorsi sono stati portati sulle nostre scene da Valerio Binasco con indubbio successo) aleggia una sorta di resa all’indeterminatezza dell’esistenza che ricorda qualcosa del nichilismo di Nietzsche (“la situazione nella quale l’uomo rotola via dal centro verso la x”) e di Heidegger (“il processo nel quale alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla”), è pur vero che questo senso di sospensione si realizza essenzialmente come crisi della parola, come distanza da ogni lettura psicologica dei personaggi e delle loro relazioni, come disincantato dato di fatto. Persino la dimensione del tempo è semplicemente una linea: si va avanti, si torna indietro, ma il tempo è sempre lì sotto i nostri occhi, nell’everlasting now della scena.
E proprio sul tempo gioca Suzannah, opera inedita e mai rappresentata in Italia che la regista Thea Dellavalle (anche traduttrice) ha presentato al teatro India di Roma nell’ambito del progetto Trittico Jon Fosse promosso dallo stabile capitolino in sinergia con l’ATCL (in cartellone pure Io sono il vento per la regia di Alessandro Greco e Inverno nella versione di Vincenzo Manna). Differentemente da quanto succede in altri testi dello scrittore norvegese, qui il nome dà sostanza al titolo e all’unico personaggio che, sdoppiato in tre donne di diversa età (le interpretano Bruna Rossi, Irene Petris e Barbara Mazzi), si muove in scena in un continuo e fluido sovrapporsi di piani temporali e spaziali. Al centro di questa narrazione c’è dunque un’ossessione femminile, che è poi un’ossessione di Fosse stesso e coincide con la figura di Ibsen. Suzannah è infatti la moglie dell’autore di Casa di bambola e in questa pièce ci appare in tre momenti distinti della sua vita: durante il fidanzamento, nei primi anni di matrimonio e ormai anziana e vedova. Tutte e tre queste donne parlano di Ibsen evocandone il carattere, il lavoro, i comportamenti e il loro racconto si svolge ovviamente in absentia dell’oggetto, quasi si trattasse di un desiderio frustrato, di un vuoto che esse tentano di riempire a parole, di un corpo solenne in quanto puramente rievocato.
Sono perciò ancora una volta le parole a dare consistenza ai personaggi, alla storia. Una consistenza priva di azione, o meglio, tessuta sul ricordo di azioni, sui fantasmi del passato, sulle aspettative di un sogno che per tutte e tre ritorna più volte su stesso, accondiscendendo le ripetizioni, i ritornelli di un dire che è un costante ri-dire. E un altrettanto costante aspettare. La Suzannah invecchiata si ostina ad aspettare il marito sperando che lui arrivi in tempo per la cena nel giorno del suo compleanno; la Suzannah già sposa e madre lo aspetta per festeggiare il compleanno del figlio di sette anni; la giovane fidanzata lo aspetta per presentarlo alla sua famiglia. Dunque, in definitiva, il tema più forte di questo spettacolo – che sarà al Teatro delle Passioni di Modena il 20 e il 21 maggio – è l’attesa. L’attesa dei vivi e dei morti. In un piano di con-fusione tra mondo e aldilà. In un tempo assoluto, senza passato presente e futuro, che funziona da negazione del ricordo stesso, e in un incastro contemporaneo di tre momenti biografici diversi che attiva un intenso meccanismo di rispecchiamento tra le protagoniste, tutte con pettinatura e abito simili.
Certamente la partitura testuale non è tra le più accattivanti dell’autore norvegese ma nel complesso il lavoro, scaldato dai toni ocra della scena arredata solamente con una poltrona, un tavolo, qualche sedia e qualche leggera “allusione” di vetrata, funziona, complice una regia sobria e compassata che mostra una solida consapevolezza stilistica. A tratti si avvertono però una certa freddezza espressiva e di un’ingenuità interpretativa riscontrabile soprattutto nelle attrici più giovani, non scevre da toni enfatici e didascalici. Inoltre, il ritmo lento del lavoro non sempre riesce a provocare quell’effetto di sospensione e di estenuante faccia a faccia con l’incredibile non-senso-della-vita-umana così emblematici in Fosse. Ciò detto, resta il ritratto di una femminilità robusta, volitiva, coraggiosa che apre spiragli di conoscenza sulla personalità di Ibsen e sulla sua inclinazione al dolore, alla solitudine, alla malinconia. In definitiva: all’infelicità. Che è poi l’infelicità di ogni uomo. E la nostra stessa infelicità.