ELENA SCOLARI | primo-jacob-olesenLa gelida concretezza di un fatto detto, non “raccontato”. Questa è la forza severa di Primo, con Jacob Olesen, tratto da “Se questo è un uomo”, per la regia di Giovanni Calò.

Lo spettacolo alterna le parti di narrazione libera a brevi letture di brani del libro, e inizialmente lo stile interpretativo di Olesen sembra troppo distaccato, quasi non si distingue la lettura dalla recitazione, sembra che tutto proceda in modo squisitamente descrittivo, chirurgico per tanta precisione espositiva. Anche i movimenti dell’attore sono precisi, calcolati, innaturali per eccesso di geometria. Ma man mano che ascoltiamo cosa viene detto (e non “raccontato”, si badi bene) capiamo che questa scelta registica si attaglia perfettamente allo stile di Levi: come la sua scrittura non indulge mai in retorica, così la recitazione rimane pulita, quasi completamente priva di accenti emotivi. E’ l’unico modo perché lo spettatore possa sopportare il peso inumano di sentir “dire” con compìta dovizia le cronache di ciò che è accaduto in un campo di concentramento nazista. Olesen resta sempre sopeso sulla fune, sentiamo la sua tensione, sentiamo continuamente che potrebbe precipitare se si lasciasse andare a “sentire” il significato di ciò che sta dicendo. E così crolleremmo noi, schiacciati dall’ascolto di azioni di una crudeltà inimmaginabile, gesti talmente umilianti che sarebbero da non credere se non sapessimo che invece la dolorosa fatica di Primo Levi è stata proprio quella di ripercorrere con le parole scritte l’inferno al quale era sopravvissuto perché anche noi lo conoscessimo. Perché tutti conoscessero.

Lo spettacolo è semplice, in scena solo una sedia, uno sgabello e alcune quinte dipinte di colori tendenti al marrone bruciato, astratte, un po’ piatte. Una componente non caratterizzante ma coerente con l’idea che l’unico punto su cui tenere il fuoco sia il testo. Infatti anche gli abiti dell’attore sono neutri: camicia grigia e pantaloni scuri.
Niente può distrarre dai contenuti tratti dal libro di Levi, l’adattamento teatrale è un estratto, eppure già sovraccarico di durezza.
L’unico elemento che si accompagna allo stile recitativo che abbiamo descritto sono i movimenti di Olesen sul palco, sottolineati da repentini cambi di luci: il narratore si muove quasi sempre percorrendo a passi decisi segmenti, rettilinei, in forma di quadrato. Così come i gerarchi facevano disporre i prigionieri nei campi, in forma di quadrato. Spigoloso. “Inquadrati” come un’unica entità ordinata secondo una geometria obbligata, obbligata come tutti i gesti e le attività all’interno dei lager.
Quadrati continui, angoli, tabelle, orari, elenchi, attese inutili e sadiche, tutto era meticolosamente regolato, senza il minimo spazio per una curva, per un imprevisto, per gli arabeschi vitali che rendono gli esseri persone, perché lì dentro le persone sparivano. Letteralmente, sì, ma sparivano anche prima di essere fisicamente uccise, sparivano per magrezza e sparivano per furto d’anima. Defraudati di ogni segno distintivo di umanità.

Ci accorgiamo di quanto sia colta, ricca, la lingua di Levi (forse non sempre facile quando il pubblico è composto di studenti), bellissimo il frammento in cui un prigioniero italiano racconta il canto di Ulisse della Divina Commedia ad un compagno mentre trasportano il pesante pentolone del rancio attraverso il campo. E’ commovente la cura con cui l’autore parla delle persone (sì, persone) che ha incontrato nel campo, dedica loro un’attenzione infinita, amorevole, per non tralasciare nulla di tutto ciò che rende un uomo diverso da un altro. Sceglie gli aggettivi con grande precisione, si sente l’affetto, il sentimento che si aggrappa ad un tono di voce, alla fisionomia di un volto, alla forma di una mano, perché questi sono unici.

La regia decisa e pulita di Calò fa emergere discretamente ma con forza inequivocabile l’orrore che ascoltiamo e la distanza forzata nell’interpretazione di Olesen rende tangibile il senso tragico delle parole di Levi. Possiamo soltanto osservare che una leggera riduzione della durata potrebbe alleggerire il compito “emotivo” dello spettatore. Che altrimenti rischia di cadere dalla fune.