VINCENZO SARDELLI | Un report teatrale dal mondo del lavoro. Un’opera che parte dalle testimonianze dirette e diventa sociologia e denuncia, sguardo sull’occupazione che si allarga alla vita e al futuro. Buon lavoro, opera teatrale aperta, progetto di Elisabetta Vergani e Maurizio Schmidt, appena andato in scena al Verdi di Milano, nasce da una ricerca che ha portato Farneto Teatro a incontrare lavoratori e lavoratrici di diverse parti d’Italia per raccogliere storie, opinioni, esperienze sul mondo del lavoro.
Si può fare teatro civile con garbo. Si possono raccontare realtà assillanti coniugando indagine e arte, cronaca e poesia. Lontano da quella demagogia che uno si aspetterebbe dal coinvolgimento nell’iniziativa di un sindacato potente come la Cgil. Vergani e Schmidt (anche, rispettivamente, interprete e regista) danno voce alle tante contraddizioni legate all’occupazione: quella dei giovani o delle donne; le differenti storie di lavoro stabile, precario, sommerso o inesistente; l’impatto sulla qualità della vita e sul futuro.
Buon lavoro è un’opera in costante rielaborazione. Perché il lavoro continua a trasformarsi, come le leggi che ne regolano il mercato. Per esempio il Jobs act. Duecento ore d’interviste sono condensate in due ore di spettacolo. Penseresti alla solita pappardella impegnata e tediosa, documentata ma grigia. Invece questo spettacolo è pieno di colori ed emozioni.
La cronaca si fa letteratura senza interpolazioni fantasiose. Bravi gli attori (Lorenzo Frediani, Marta Lunetta, Giuseppe Palasciano, Emilia Scarpati Fanetti, Silvia Valsesia, Elisabetta Vergani) a dare spessore a vicende dolorosamente umane, da essi stessi raccolte in prima persona.
Gli espedienti scenici sono minimi. Due schermi, su cui proiettare immagini e didascalie. La suggestione di qualche ombra cinese. Maxi bobine, che ruotano sul palco, componendo varie architetture. Le storie si dipanano sotto le note di Giulia Bertasi: sonorità antiche e moderne dal vivo alla fisarmonica o alla tastiera; musiche di strada, tradizionali, melodrammatiche, che dilatano il ritmo narrativo.
Teatro civile e teatro popolare. Una citazione da Gaber. Si parte dall’utopia illuminata di Camillo Olivetti. Si arriva all’attualissimo precariato dell’operaio, dell’insegnante, della giornalista. Decenni di battaglie sindacali, di scioperi operai, di rivendicazioni sessantottesche, spazzate vie dalla crisi e dai politici ottusi, da imprenditori assassini o da caporali senza scrupoli. Ecco gli effluvi letali dell’Ilva di Taranto, le morti per mesotelioma di Casal Monferrato. Esempi di dignità e orgoglio, come Romana Blasotti Pavesi, nonna casalese vedova dell’amianto. Ha perso marito, sorella, nipote, cugina, figlia: quel che resta di una vita, spesa per la giustizia.
Storie tra passione e ironia; quelle delle Marie del Sulcis, o dei braccianti di Castelnuovo Scrivia. La vicenda di Monica, assunta a termine per il controllo qualità e licenziata dopo un incidente sul lavoro. La chiusura delle acciaierie di Piombino. Storie d’alienazione e ingiustizia, che ci riportano agli albori della rivoluzione industriale, a un lavoro senza diritti né tutele. Storie senza piagnistei, lontane dalla violenza grossolana di certo teatro politicizzato.
Uno spettacolo zeppo d’immagini, oggetti, odori: tangibili eppure inesistenti sul palco. Gli attori entrano nell’anima delle persone che rappresentano: accenti lombardi, siciliani, veneti, sardi, piemontesi, pugliesi.
Nulla di troppo. Non c’è gesto che non sia finalizzato ad accompagnare le parole. Non c’è movimento che non richiami un’immagine precisa e pulita. I toni d’implicita accusa a un’Italia «Repubblica fondata sul lavoro» solo sulla carta, sfumano tra leggerezza e sorrisi. Un affresco vivido di teatro civile, nel solco dei vari Paolini, Curino, Celestini e Pesce. Artigianale, forse non così originale. Capace però di unire documentazione e narrazione. Senza derive ideologiche. Senza soprattutto rinunciare all’arte.