ALESSANDRA CORETTI | Perfettamente a suo agio sul palcoscenico, Alessandro Argnani – unico protagonista de Il Giocatore – ha riproposto di recente a Matera la pièce incentrata sulla straziante dipendenza che muove dal gioco d’azzardo. Il problema, scucito dai pesanti risvolti di piaga sociale cui è spesso relegato, viene attraversato nella sua essenza più intima: forma alienante di degrado umano. Varie riflessioni ruotano attorno allo spettacolo, la più immediata è legata al senso di vuoto che il genere umano tenta di annientare con pratiche bulimiche autodistruttive, come l’assuefazione da slot machine insegna. Questo il magma di inquietudine restituito al pubblico del teatro Comunale, chiamato in causa nel disegno scenico – a firma di Ermanna Montanari – con un gioco di specchi molto efficace che invita lo spettatore a fare i conti con una moltitudine di sé.
Il passaggio di Argnani nella Capitale europea della cultura 2019 è stato ulteriormente valorizzato, dall’incontro con alcuni gruppi di teatro locali, nel cui lavoro, l’attore, ha riconosciuto affinità di intenti, ambendo a lasciare tracce della non-scuola anche sul territorio lucano. Interessante incontrare Argnani, già incrociato alcuni anni fa a Santarcangelo in Eresia della Felicità e ora nel pieno della sua maturità professionale. L’artista si avvicina al teatro giovanissimo entrando con I Polacchi (1998) a far parte delle Albe; torna in scena nel Tingeltangel (2000), L’isola di Alcina (2001), Baldus (2001), è premio Ubu nel 2005 come miglior attore under 30 e l’elenco di collaborazioni e riconoscimenti potrebbe continuare; ammette però di essere stato, innanzitutto, folgorato dal teatro (Martinelli docet).
Il Giocatore è uno spettacolo sul gioco d’azzardo privo di una rilettura sociale del problema, ma dai toni inquietanti. Come si lavora per creare una performance basata sulla trasmissioni di sensazioni e non didattica?
Marco Martinelli, autore del testo (ideato insieme ad Ermanna Montanari come Teatro delle Albe), ha incontrato tantissimi giocatori che hanno raccontato le loro storie di vita distrutte da questa piaga tremenda legalizzata dallo Stato. Credo che Marco abbia la capacità di ascoltare davvero le persone che incontra senza doppi fini, cercando di far diventare queste vite deturpate, bellezza da condividere ovvero teatro. Il teatro è qualcosa che nella forma più grande è capace di lacerarti e aprirti nuovi mondi in cui guardare. A me non piace il teatro che intende dare delle risposte. A teatro non si va a cercare delle risposte, ma per provare a crescere in comunità nell’incontro tra chi recita e chi ascolta, in un luogo per noi importantissimo. Il teatro deve riprendere la sua importanza e i teatranti hanno questa responsabilità: pensare un teatro che abbia voglia di dialogare o di scontrarsi con chi assiste.
Nel monologo hai dato prova di grande presenza scenica, potresti raccontarmi della tua formazione attoriale?
Io sono cresciuto “a bottega” con il Teatro delle Albe, a diciassette anni ho incontrato la non-scuola e Marco Martinelli ammalandomi letteralmente di teatro. La grande fortuna è stata crescere e confrontarmi con dei grandi maestri come Marco ed Ermanna, la cui ricerca artistica intreccia etica ed estetica. La mia formazione è instancabile e si nutre anche di sguardi verso altre forme d’arte, il lavoro dell’attore è anche guardare, veder-fare teatro, lasciarsi contaminare, non smettere di confrontarsi.
Lo spettacolo è stato inserito nella sezione Ri-pensamenti Il Teatro per il sociale. Una domanda che faccio spesso: al di là delle definizioni precostituite, se volessimo immaginare un teatro che abbia davvero un impatto sulla società odierna cosa secondo te dovrebbe avere?
Credo che il teatro dove raggiunga i suoi livelli, non massimi, ma di massima serietà abbia a che fare per forza con la società. Noi da anni portiamo avanti, parallelamente alla produzione di spettacoli, anche un percorso di pedagogia teatrale anti-accademica con la non-scuola, partiamo dal presupposto che il teatro non si insegni, portiamo gli adolescenti a giocare al teatro. Il teatro è qualcosa di bello e liberatorio. Il teatro è vita, è un concerto rock, è una partita di calcio. La responsabilità che questo significato arrivi è di chi il teatro lo fa, lo ospita e lo racconta; si ha bisogno di un teatro vivo che anche sbagliando, facendo lavori fragili, esteticamente non perfetti, abbia voglia di rivendicare la sua centralità. Si necessità di nuovo entusiasmo come quello di Reteteatro41 con cui stiamo immaginando un possibile percorso di non-scuola.
Come nasce questo gemellaggio con Reteteatro41?
Il progetto lo stiamo costruendo ora. Per noi del Teatro delle Albe la non-scuola è anche un modo di creare ponti tra luoghi diversi. Due cose fondamentali vorrei precisare: non vogliamo venire in Basilicata e imporre una modalità di lavoro, il progetto partirà solo se Reteteatro41 e il Consorzio Teatri Uniti dimostrino di avere realmente voglia di lavorare insieme nella logica di crescita reciproca.
Vieni da Ravenna, altra città candidata a Capitale europea della cultura 2019 supportata da una politica culturale fortissima, cosa pensi della vittoria di Matera?
Onestamente credo che Matera abbia meritato il titolo. Ravenna ha da sempre una politica culturale importante che ha permesso di raggiungere col tempo livelli davvero alti, esiste ad esempio il modello delle convenzioni, quindi la cultura non si appalta ma si affida a chi il teatro lo fa veramente, il Teatro delle Albe ne è un esempio. Il percorso di candidatura è stato utile per noi per mettere in rete le energie locali. Matera ha meritato di vincere il titolo perché ha saputo essere visionaria, ha messo in piedi una squadra molto forte in grado di dialogare con le forze locali.