VINCENZO SARDELLI | Il teatro e la fragilità. Sul palcoscenico la difficoltà di comunicare, di esprimere con autenticità la propria personalità. Muri e Amalia e basta, due spettacoli capaci di tradurre in reticoli d’immagini poetiche la realtà interiore di due personaggi alle prese con l’alienazione. Mariuccia e Amalia, monologhi, donne, solitudini. Che però si schiudono al mondo, e cercano un linguaggio per essere.
Il Renato Sarti migliore è quello che smussa le ruvidità ideologiche, supera la comicità pasticciata e si abbandona alla narrazione intimistica. Testi e regie come Goli Otok, Nome di battaglia Lia, Titanic. Oppure Muri, appena proposto al Giuditta Pasta di Saronno.
Muri – prima e dopo Basaglia. Un enorme parallelepipedo su fondo nero, un tavolinetto con teiera, un leggio, sono gli ingredienti scenici. Tra le note subliminali di Carlo Boccadoro, Giulia Lazzarini dà forma alla melodiosa parlata triestina di Mariuccia Giacomini, infermiera all’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste. Nel 1971 Franco Basaglia ne diventò direttore. Fu un mutamento radicale. Scomparvero camicie di forza, docce fredde, psicofarmaci, elettroshock, lobotomia. Furono introdotti laboratori d’arte e teatroterapia.
In questo intenso reading teatrale prodotto dal Teatro della Cooperativa, Giulia-Mariuccia ripercorre trent’anni di vita in manicomio. Distingue le due fasi di cui Basaglia fu discrimine. Prima di lui l’ospedale psichiatrico si chiamava manicomio. Era la babele stigmatizzata da Alda Merini, i degenti espropriati d’ogni residuo di umanità. Dopo il 1971 si fece strada un nuovo approccio, capace di restituire ai malati dignità e storia personale. I pazienti ricominciarono a lavarsi, vestirsi bene, uscire. A riappropriarsi di vita e bellezza. Tornarono a sentirsi amati e ad amarsi.
Le luci gialle (di Claudio De Pace) evocanti la malattia, le atmosfere livide e disperate della prima parte ora diventano azzurro-mare. Il muro crolla, sprigiona l’identità dei tanti ricoverati: persone, non più semplici malati. Qualche deriva “agiografica” non sminuisce la riflessione su un’esperienza che, pur con qualche ombra, fece di Trieste un punto di svolta nella neuropsichiatria, in Italia e all’estero.
Amalia. Entri in sala ed è già sul palco che ti aspetta. Ti attraversa la sua stessa ansia e vulnerabilità. Amalia e la sua umanità. Amalia ligia alle scarne regole del suo lavoro da addetta in un museo, secondo la mentalità comune, uno dei pochi adatti a una persona sorda.
Amalia e basta, testo, regia e interpretazione di Silvia Zoffoli (scene Leonardo Carrano, disegno luci Camilla Piccioni, costumi Maria Grazia Lasagna Mancini, strutture scenografiche Carlo e Roberto Zoffoli, assistente alla regia Ilaria Montagna) di recente alla Sala Fontana di Milano e al Miela di Trieste, non è tanto uno spettacolo sulla sordità e in generale sulla disabilità. È piuttosto una meditazione sulle tante fragilità che ci percorrono. Un lavoro delicatamente coinvolgente dalla scenografia naif: tre pannelli mobili come quadri, porte, paraventi, lavagne. Pochi rumori essenziali. Niente musica. Una luce diffusa dosata. Dominano i colori primari: la sordità ti trascina in un mondo surreale che potenzia gli altri sensi.
Amalia lavora da hostess in un museo. Ma studia arte, dipinge, legge. Vive di ricordi e sogna l’amore. Guarda a una felicità da conquistare. Silvia Zoffoli ci accompagna nel percorso di una donna, nelle sue contraddizioni. Da una parte l’affrancamento dalla famiglia, i primi amori, il desiderio di nuove esperienze. Dall’altra l’avvenire incerto, il disorientamento verso le proprie stesse emozioni.
Si dipana un romanzo di formazione. Equilibri precari sono cornice a una gestualità solenne. La voce sgraziata da “oralista” (cioè da lettrice delle labbra, capace a propria volta di parlare) rivela un’intensità straniante, sottolineata dai grandi movimenti della bocca. Amalia turbata, senza patria. Né multisensoriale né sorda in senso stretto, poiché affianca al linguaggio dei segni quello appunto da oralista.
Uno spettacolo empatico, ben scritto. Capace di rendere le pieghe dell’anima di una persona che si scontra quotidianamente con pregiudizi e ostilità, ma sa anche contare sulle proprie forze, su tanti affetti, per ripartire di slancio.