unnamedLAURA NOVELLI | “Io sono / Madonna di saette maestose / E di palcoscenici d’argento /Madre di rugiada mattutina / Io raccolgo lacrime / Dal cielo / E le verso sulla terra […]”. Si apre così il canto, insieme aulico e carnale, che Germana Mastropasqua intona nell’inizio dello spettacolo Paranza – Il miracolo. Vestita con i colori accesi di un dipinto  rinascimentale, una corona di luci intermittenti sulla testa (perché ad intermittenza funziona la vita stessa degli uomini), è lei la voce chiamata ad accompagnare questo viaggio nelle preghiere impossibili dell’oggi. Ad evocare trascendenze terrene che possiedono la sacralità dei valori infranti, dei sentimenti traditi, delle illusioni bruciate, della disperazione affrontata con dignitoso coraggio. E’ lei che introduce e chiude la materia estremamente originale e cocente di questo pregevole lavoro ideato da Clara Gebbia, Enrico Roccaforte (entrambi registi), Katia Ippaso (autrice della drammaturgia e delle liriche) e Antonella Talamonti (cui si devono le musiche originali e la direzione musicale), dove si fondono suggestioni e registri espressivi molto diversi tra loro al fine di creare una sorta di operina barocca che accosta con estrema naturalezza parole e canzoni eseguite dal vivo, e che racconta i santi, i martiri, i fragili del nostro mondo per immaginarli in cammino verso un possibile riscatto o – almeno – verso una visione, un’illusione di riscatto.

Motivo per cui assume proprio la forma di una processione laica, con tanto di catafalco (a cura di Kallipigia Architetti) e di stazioni da Via Crucis, la tessitura drammaturgica in cui l’autrice, ispirandosi anche a storie di cronaca, incrocia le esistenze amare di quattro creature disperate: una cantante che vende la sua voce per sbarcare il lunario (la Mastropasqua); una terremotata che ha perso tutto (arrivano echi del disastro dell’Aquila) e che, nella scatola di cartone in cui si è ridotta a vivere, parla con le piante per non impazzire (Alessandra Roca); una senzatetto non più giovane e malata che sembra farsi carico di una follia delirante ma lucida all’interno della quale inscatola il suo passato di ricoveri, dolori,  tragedie personali (Nené Barini); un manager ormai disoccupato che rifiuta con veemenza la sua nuova condizione di povero e di padre separato (Filippo Luna).

Sono tutti e quattro calati in uno spazio inizialmente sospeso, beckettiano, che si fa però sempre più connotato via via che la loro parabola prende corpo: si incontrano, si uniscono, cantano insieme, trasportano un’insegna votiva stilizzata ma pensante (e mi torna in mente qualche passaggio de L’arrobbafumu di Francesco Suriano). La  sollevano da terra con coreografica energia andando in processione alla Madonna Dell’Arco di Napoli, e questo pellegrinaggio diventa l’occasione per riconoscersi, per raccontarsi, per sperare. Per credere in un miracolo. Un po’ come ci crede Gelsomina ne La strada. Un po’ con quella santità laica di certi personaggi di Tarantino o di Testori. Un po’ con il candore disarmante del protagonista di Miracolo a Milano. Non somiglia forse il suo sogno di un paese in cui “buongiorno voglia dire davvero buongiorno” al mondo cantato in Libera nos a malo? Un mondo trasfigurato giocoforza in preghiera: “Libera nos a malo/ Liberaci dalla bruttezza/ Liberaci dal crimine/ liberaci dal sangue/ facci bianco il sangue/ bianco bianco / pulito pulito / che è quasi differito / il dolore / chi ha ucciso ha ucciso / amen”.

Lo spettacolo è coprodotto dal Teatro Biondo di Palermo e dal Teatro di Roma insieme con Teatro Iaia / Compagnia Umane Risorse; dopo il debutto palermitano è stato in cartellone al teatro India di Roma e approderà presto a Milano (15 e 17 maggio, teatro dell’Elfo) e a Budapest. Ne abbiamo parlato con Katia Ippaso, autrice del testo e delle liriche che qui mette in gioco tutte le sue passioni (il giornalismo, la critica teatrale, la poesia, la narrativa, la drammaturgia) sperimentando per la prima volta la scrittura di testi per la musica.

Come è nato il progetto “Paranza – Il miracolo” e come è avvenuto l’incontro tra te e la compagnia Umane Risorse?

“La compagnia riunisce artisti che insieme avevano già realizzato Il Rosario, un’opera di teatro e musica liberamente ispirata a Federico De Roberto e dunque ad un testo classico. Con questo nuovo lavoro invece si è sentito il bisogno di misurarsi con i temi del contemporaneo. Clara Gebbia ed Enrico Roccaforte avevano letto sia il mio romanzo sia Doll is mine (primo passo di una trilogia teatrale sul Giappone attualmente in fase di ulteriore elaborazione, ndr), hanno pensato che la mia scrittura si adattasse alle loro visioni e così mi hanno chiamata per questa seconda esperienza collettiva”.

Rispetto alla prima versione che ha vinto il Festival “I Teatri del Sacro” nel 2013, cosa è cambiato nel lavoro?

“Lo spettacolo presentato a Teatri del Sacro aveva essenzialmente la forma di concerto; era molto ieratico e astratto. Da allora c’è stata una netta evoluzione. Abbiamo lavorato per passaggi processuali, abbiamo aggiunto pezzi di lingua, di drammaturgia, e gli attori hanno tutti contribuito a questa continua trasformazione. Grazie all’importante coproduzione che ci sostiene, abbiamo potuto completare il progetto e debuttare a Palermo, ma devo riconoscere che per noi il debutto ufficiale è stato quello romano. Il lavoro ha finalmente preso forma piena anche se, trattandosi di una scrittura in vita, ogni giorno cambia e si evolve”.

Puoi raccontarci come hai affrontato il tuo duplice intervento autoriale? 

“Ovviamente ho lavorato su due registri notevolmente diversi: da una parte, i testi delle canzoni e, dall’altro, la drammaturgia vera e propria. La sinergia tra me e Antonella Talamonti è stata splendida: lei mi mandava la musica e io scrivevo i versi. Versi che sono rimasti intatti nella messa in scena. Sin da subito, note e parole si sono sposate benissimo e si è trattato di un incontro molto bello. Parallelamente ho lavorato sulla partitura drammaturgica costruendo personaggi, scrivendo dialoghi che poi, come già detto, gli attori hanno modificato e adattato a sé. Alcune voci del testo fanno riferimento alla cronaca; ad esempio, cito il caso sconvolgente dei tre anziani di Civitanova Marche (due coniugi pensionati e il fratello della donna) che si sono suicidati per dignità, perché non potevano più pagare le spese. Ci sono riferimenti a storie vere di fragilità sociale, a storie di ordinaria barbarie”.

Di quali letture nutri principalmente la tua scrittura , le tue visioni?

“La mia scrittura è sostanzialmente lirica e infatti amo molto la poesia. Un’opera che non mi abbandona mai e che mi risuona dentro costantemente è La Terra Desolata di Thomas Eliott. Non aspiro certo a un confronto, ci mancherebbe. Voglio semplicemente dire che certe suggestioni, certe immagini, certe parole mi accompagnano sempre quando cerco di trovare quell’equilibrio tra alto e basso, elegia e concretezza, su cui penso si radichi il mio stile. E in fondo la cifra stessa di Paranza, la caratteristica precipua della sua materia musicale, della sua lingua più autentica sta proprio in questa commistione di cultura alta e cultura popolare. Una bella sfida”.