VINCENZO SARDELLI | «L’arte è inganno che ci aiuta a vedere la verità», sentenziava il parigino d’adozione Picasso. Nelle Intellettuali del parigino doc Molière è il teatro che celebra se stesso, in una sfilata barocca dove verità e inganno s’inseguono fino a confondersi.
Clitandro, rifiutato da Armanda, figlia di Crisalo e Filaminta, vuole sposare la sorella di lei Enrichetta. Il padre è favorevole al matrimonio. La madre, amante della cultura e della scienza, vuole invece dare la ragazza in sposa a Trissottani, saccente vanitoso venerato anche dalle altre due intellettuali di famiglia, Armanda e zia Belisa. Il contrasto per la scelta del genero sembra risolversi a favore della madre. Ma – come sempre in Molière – a dipanare la finta matassa sarà la finzione stessa: una bugia architettata da zio Aristo.
La messinscena di Monica Conti al Teatro Sala Fontana di Milano è un festoso ritratto d’insieme stile Charles Le Brun: ornato tra mito e allegoria; gusto dell’effetto drammatico ricco d’attenzione ai dettagli; fisionomia dei volti e dei caratteri analizzata in relazione ai diversi stati d’animo.
Anche le figure secondarie sono cesellate. Nessuna forzatura. Né macchiette né didascalie in questo affresco orizzontale, dove ogni personaggio è dotato di psicologia propria, e i valori individuali si compongono in un tutto organico. Brava la regista a tenere al centro l’attore più che la parola, nonostante la grazia forbita dei versi alessandrini tradotti da Cesare Garboli.
Se Molière ambientava la vicenda nella casa del ricco Crisalo, qui la Conti, con l’aiuto di Domenico Franchi, opta per uno spazio esteso che è abitazione, teatro e chiesa. I personaggi (Stefano Braschi, Maria Ariis, Miro Landoni, Angelica Leo, Carlotta Viscovo, Federica Fabiani, Marco Cacciola, Roberto Trifirò e la stessa Conti) sono incastonati in una scala-piramide che è gerarchia fine a se stessa, dove l’ordine sembra assegnato dalle contingenze, non dalle qualità personali.
Cornice musicale di questa parata è la Marcia per la Cerimonia dei Turchi di Gian Battista Lulli. Disincanto, ironia, percussioni e ritmi serrati si uniscono a melodie accattivanti e canoni armonici, con digressione gregoriana (le musiche sono di Giancarlo Facchinetti).
Protagonista delle Intellettuali è il teatro, tra verità e incoerenze, umanità e potere, utopie e finzioni. Un teatro in movimento incessante, come la risacca di sottofondo all’abbrivo. In questo carrozzone chiaroscurale (le luci sono disegnate da Antonio Zappalà) a ogni parola è concesso di altercare e contraddirsi. Molière intriga con la sua capacità di fiutare in anticipo la direzione della storia. Siamo a Versailles, alla corte di Re Sole. Eppure i lussi della nobiltà sembrano cedere a una cultura filosofica e letteraria precocemente illuminista. Ma il concetto di tolleranza in Molière è più moderno sia della Rivoluzione e delle sue derive forcaiole, sia delle sfilate Je suis Charlie. La conversazione tra i protagonisti, anche quando si polarizza su posizioni antitetiche, rimane rispettosa fino al silenzio, disponibile fino a togliersi la parola di bocca per lasciar parlare l’altro.
Non per questo Molière, in anticipo pure sulle suffragette in quanto sostenitore di un’istruzione al femminile, risparmia frecciate a una cultura che è snobismo e vanagloria. E infatti il termine “intellettuale” viene ancora adesso usato con valore ironico per indicare ostentazione di gusti e costumi raffinati o superiorità culturale e spirituale spesso solo immaginaria. Ecco perché il palco è una giostra, e i personaggi sono talvolta burattini, che duellano con cantinelle che diventano spade e croci.
Tra finezze intellettuali di facciata e becere funzioni primarie riflettiamo sui vizi degli uomini come deroghe alla naturalezza, come autoinganni. E il ridicolo (incarnato dai fieri attori, con Trifirò superbo in tutti i sensi) diventa la forma sensibile di questi vizi.