RENZO FRANCABANDERA | La scena è essenziale e propone una sorta di tenda bianca anteriore lunga quanto tutto il palcoscenico, al di là della quale prendono vita i personaggi, mentre al di qua sarà la voce del maestro stesso a prendere una qualche corporeità, affidata di volta in volta a diversi interpreti.
Proprio questa voce introduce gli spettatori nella vicenda che si comporrà poi sui singoli racconti, “I danni del tabacco”, “La domanda di matrimonio” e “L’orso”.
Dietro la tenda tre pedane nella parte più vicina al proscenio e tre attaccapanni sul fondo, ai quali sono appesi i vestiti, per dar luogo alla più completa finzione scenica.
Negli ultimi anni il Cechov dei racconti, come pure quello privato dei suoi taccuini sta tornando a catalizzare l’attenzione di molto teatro italiano: compagnie storiche e giovani promesse in queste pagine meno frequentate e per molti versi sconosciute cercano le tracce e la forza del drammaturgo attraverso note di carattere e impulsi più umani, a volte quasi contrapposti a quelli tiepidi e poco temperati dei suoi personaggi irrealizzati delle opere più note.
Possiamo menzionare ad esempio la ricerca di Macelleria Ettore dell’ultimo anno e mezzo, con gli studi per uno spettacolo tratti proprio dai taccuini, o lo sguardo sulla vita privata di Cechov con la regia della giovane Vanessa Korn in un monologo che vede portato in scena proprio il grande drammaturgo russo come personaggio.
E in questo scenario di generale attenzione verso l’opera più biografica e l’impromptu emotivo del maestro di fine Ottocento e inizio Novecento che va ad iscriversi “Svenimenti”, il nuovo lavoro de Le belle bandiere di recente debuttato al C.t.B. di Brescia e di recente ospitato a Milano al Tieffe Menotti.
La compagnia di Elena Bucci e Marco Sgrosso arriva a questo confronto dopo un percorso negli ultimi anni vocato anche alla rilettura del classico, dai tragici greci a Goldoni.
Anche qui se non proprio Cechov, è il suo spirito che vaga nella notte, come l’uomo in frac di Domenico Modugno, e che ci fa addentrare nel suo mondo di figure e personaggi, passando dal diario dei taccuini ai più celebri fra i suoi racconti, in alcuni casi frammentati e mescolati in un tentativo polifonico.
Del drammaturgo si vuole così dare una lettura della persona, prima ancora che attraverso i suoi personaggi, e così anche in questo spettacolo, come anche in altri fra quelli menzionati precedentemente, emerge un artista dal tratto allegro e audace, vero artefice e pensatore di un’ironia sociale cruda ma anche leggera, disvelatore delle finzioni del consesso civile.
Una finzione accentuata in questo allestimento dalle belle luci di Loredana Oddone, in cui spicca come intermezzo fra i racconti un fondale azzurro artificiale contro cui si stagliano, dietro la tenda, le ombre dei fantasmi, i personaggi dei racconti, l’autore stesso, come appartenessero al regno del non più, del non umano.
Le prove d’attore dei tre interpreti Elena Bucci, Gaetano Colella, Marco Sgrosso, diretti in questo caso dalla Bucci stessa, sono di pregio e creano un’empatia con la sala che raccoglie la sfida dell’ironia, ma anche dell’umanità di questo grande interprete della parola teatrale. La recitazione assume volutamente il tono della parodia, dell’eccessivo, e vira sul tono della maschera.
Ne viene fuori un prodotto di cui è facile intuire impegno e robustezza, anche se forse resta un po’ monocorde nell’intenzione: senz’altro si apprezza la lineare semplicità, un passo avanti, a nostro avviso, rispetto ad alcuni recenti allestimenti in cui si erano tentate arditezze forse non del tutto coerenti con l’intento di esser semplici, appunto. Ascriviamo al vocabolo semplice in questo caso il chiaro e positivo sapore di pulizia, direzione, accessibilità dei segni.
Quanto è in scena è quanto strettamente necessario.
Quindi Svenimenti ha l’innegabile pregio di stare entro questi confini, peraltro artisticamente ampi, e di trovare un canale di comunicazione con il pubblico, per una creazione che finge semplicità ma resta complessa e attoralmente legata ad equilibri scenici delicati, cosa di questi tempi assai rara fra inutili vuote arditezze e attori che più spesso di quanto si creda sono interpreti improvvisati figli di una presunta performatività per la quale, non bisogna dimenticare, occorre comunque tanta scuola.
Quanto alla monodia cui si faceva menzione, ne facciamo cenno quasi come provocazione, sulla cifra che contraddistingue il lavoro di questa, come di altre compagnie storiche nate con riguardo alla forma teatrale che viene portata avanti, a volte quasi un credo sulla forma scenica.
Sarebbe bello se ancor più questi artisti capaci ponessero più spesso a disposizione di altri sguardi registici le loro abilità, per mischiare un po’ il sangue, andare oltre quanto già riesce, sfidare intellettualmente altre possibilità. Così ricca ci è parsa di recente la Bucci, ad esempio, a fianco di Morganti ne “L’attore vecchiatto”, sempre sui toni dell’ironia ma con un afflato decadente che proprio il recitato di Morganti conferiva al duetto.
Si potrà?