RENZO FRANCABANDERA | Dentro la sua ideale stanzetta (in scena è una tenda tipo campeggio, di cui resta l’anima di appoggio in metallo e la zanzariera, per permettere la visibilità al pubblico) si è rinchiusa la potagonista di Rooms 2.0, una drammaturgia per attrice e coro web, scritta e diretta da Lisa Moras, interpretata da Elisabetta Mossa, che abbiamo visto alcuni giorni fa a Milano a Campo Teatrale, ma che, proprio per l’attualità del tema, sta ben girando in Italia, con interessanti riconoscimenti come la Menzione speciale Premio Giovani Realtà del Teatro 2013, e due premi: La città infinita 2014 e Direction Under 30 2014.
La protagonista è una tardo adolescente, una 29enne, ma che ha tutte le caratteristiche per parlare a generazioni trasversali, tanto che in sala erano numerosi anche i ragazzi delle scuole superiori.
Quello che Rooms 2.0 porta luce è il rapporto malato fra giovani ed identità, lì dove questo processo si costruisca secondo una logica che prevede la composizione dell’immagine identitaria attraverso una serie di voci esterne spesso immateriali, che arrivano dalla rete, dalle chat, perfino dal condominio.
I frammenti di telefonate con la genitrice, le discussioni on-line, i video da postare nel canale YouTube sono le modalità con cui la protagonista di questa storia racconta se stessa in una solitudine che si fa via via più delirante ed ossessiva, giustapponendo banalità dei dialoghi in rete, superficialità delle relazioni e sindromi da realtà vera che ben descrivono il modo con cui la digitalità sta cambiando molti dei nostri modi di essere (insicuri).
E se questa storia, forse per convenzione teatrale, finisce bene, sono in realtà moltissimi i casi in cui le vicende come quella narrata terminano con atti di soppressione del proprio io, un processo lento ma inesorabile di affogamento entro una realtà virtuale che assorbe, svuota, devasta.
Lo spettacolo vive di una prima parte divertente e frizzante, e la protagonista allorquando chiamata ad una recitazione naturale e sincera verso questo personaggio di cui bene viene scandita la modalità sociopatica, riesce senza dubbio a proporre al pubblico un esito felice e credibile.
Si soffre invece nei 10 minuti finali, allorquando un’improvvisa sterzata drammaturgica pretende di calare su questa vicenda un registro totalmente alieno e proiettante il futuro immaginario e sconnesso della protagonista, con una modalità difforme da quanto fino a quel momento visto in scena ma soprattutto frettolosa, mettendo a cuocere una quantità di arrosto incompatibile con la dimensione della graticola.
L’idea drammaturgica di uscire dalla vicenda autistica attraverso la proiezione e il racconto anticipato di un futuro adulto e di consapevolezze non è di per sè un punto debole, il problema è il come, visto che questo finale fa perdere all’inisieme molta della forza e dello slancio (anche umoristico) che aveva avuto fino a quel momento, per proporre un codice incoerente.
Probabilmente va cercata un altro modo, evitando inutili scorribande dentro praterie della parola che però rischiano di essere distese brulle, se non sostenute da adeguati momenti chiarificatori che non diano l’impressione di tante tematiche dell’età matura, anche molto delicate, affrontate poi in poche frasi.
Attenzione dunque a non chiudersi nelle proprie stanze, ci lascia come lezione lo spettacolo, ma anche e soprattutto a come uscirne (drammaturgicamente parlando).