ALESSANDRA CORETTI | Imbastire uno spettacolo sul pensiero – complesso quanto affascinante – di Simone Weil non è lo scopo de La mosca nella carne studio#1, monodialogo creato e interpretato dall’attrice Rita Felicetti, che parte dal testo Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano della filosofa francese, portato in scena per frammenti e tagli non sinottici, così da restituire alla performance l’imago dello scritto. Come si legge dalle note di regia, lo spettacolo è un dialogo virtuale tra una performer contemporanea e la “vergine rossa” morta nel ’43, entrambe in due tempi distanti sembrano porsi la stessa domanda: ci si può allenare alla bellezza? La scena segue un principio polare in cui Felicetti si interfaccia con una voce fuori campo: un video, che si fa elemento disturbante. La performer, in abiti pop e accompagnata da una bicicletta da cross, flirta a ritmo di sitcom con lo spettatore chiamato a partecipare, in alcuni momenti, con battute mirate; il video è una colta operazione di cut-up con citazioni ungarettiane e rivisitazioni contemporanee del testo di Weil. Il pubblico è sin da subito consapevole di assistere ad un esperimento dagli esiti ancora sconosciuti, non un’opera incompiuta, ma uno studio in divenire in cerca di stabilità formale, occasione per l’artista di misurare il grado della propria ricerca e per lo spettatore di entrare a gamba tesa nel cantiere teatrale, scandagliare le materie prime della pièce, assimilarne il metodo compositivo. Momento prezioso e stimolante, quando la parzialità dello sviluppo scenico non è un alibi, ma rispetta lo statuto del fatto teatrale, garantendo il rapporto dialettico scena-spettatore. Obiettivo, come si capirà più avanti, parzialmente disatteso dalla performance.
Il testo spettacolare messo a punto da Felicetti si esprime in una polifonia di codici, fatta di video, suono, parola, ma il fulcro è nella mimica scenica dell’interprete, catalizzante perché ventriloqua. La versatilità – o forse sarebbe più interessante parlare di contaminazione – è sicuramente il tratto qualificante il profilo attoriale di Felicetti, figlia di un’esperienza teatrale non accademica ed estremamente eterogenea, partita negli anni Novanta con il Teatro dei Sassi, cresciuta con lo studio del clown e culminata con Emma Dante e la Compagnia Menoventi. Nonostante la notevole cassetta degli attrezzi di cui l’attrice dispone c’è un problema di incisività da risolvere, per permettere al dispositivo scenico di funzionare senza intoppi. In primo luogo sembra mancare una visione organica dello spettacolo, una cabina di regia, che monitori i vari aspetti estetici e li disponga in modo strategico secondo un effettivo bisogno drammaturgico. Probabilmente quel principio organizzativo polare, di cui si parlava all’inizio, è spesso considerato marginale, dovrebbe invece diventare struttura portante della performance. Inoltre, l’iconografia scenica non è riconoscibile, quanto uno spettacolo di questo tipo richiederebbe, per empatizzare con l’immaginario dello spettatore, consentendogli di entrare nell’opera e scegliere il proprio campo di osservazione. L’ultima considerazione di natura formale riguarda lo strumento verbale: il più appropriato alla logica del lavoro. La performer sfodera infatti un vocabolario populista, ispirato all’idioma massmediatico, rafforzato da ironia e citazioni facilmente individuabili, escamotage usato per mettere l’attenzione del pubblico sotto pressione, non appagandola, ma tentando di portarla oltre il significato immediatamente fruibile. Scardinato l’impianto scenico si è di fronte ad un’ossatura metodologica da spingere alle estreme conseguenze, per evitarne lo sgretolamento in parvenze ingiustificate o peggio la caduta nella retorica del contemporaneo. In altre parole, si chiede al funzionamento della comunicazione teatrale, ideato da Felicetti, di radicalizzarsi, sul piano sia estetico sia concettuale, e diventare tagliente, spiazzante. Impedendo l’autoreferenzialità della messinscena si riabilita l’indispensabile catena di risonanze che lega l’artista al testo, per poi riverberare sul pubblico in cerca della propria verità scenica.