ELENA SCOLARI | I Figli di nessuno è un film polpettone del 1951 con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Nessuno è il nome che Ulisse spaccia al tonto Polifemo per ingannarlo. Nessuno è anche una nota canzone portata al successo prima da Wilma de Angelis e Betty Curtis al festival di Sanremo del 1959 e poi da Mina. N.N. è la sigla dell’espressione latina nomen nescio cioè “nome sconosciuto”.
Tutte queste negazioni – sentimentali, verbali, esistenziali – si trasformano invece in affermazioni nello spettacolo N.N. Figli di nessuno visto al Teatro i di Milano, testo di Francesca Garolla, regia di Renzo Martinelli. Abbiamo a che fare con la faccenda (simbolica) dei padri, assai indagata, ultimamente, nel cinema ma forse ancor di più nel teatro. E’ un periodo, questo, in cui ci si sente facilmente orfani, ma al contempo incapaci di affrancarsi da parentele ingombranti e castranti.
Chi sono i padri? Spettri che incombono? Cosa ci hanno lasciato? Cosa ci permettono e cosa ci impediscono?
In scena i due personaggi se lo chiedono: un figlio Claudio e un padre Saturno si presentano ma non si conoscono, si parlano ma non dialogano, elencano ricordi contemporanei solo nel momento dell’espressione ma che non si toccano nella sostanza.
I due si incontrano in occasione di una morte, la morte di un padre, in un tempo di attesa tra l’attimo della dipartita e il ritorno della salma cui dovranno seguire tutte le note procedure. Un angolo livido della scena e una carrozzina alludono a un ospedale, due file di poltrone legnose (un vecchio cinema, un vecchio teatro) sono collocate una di spalle all’altra, impossibilitate a comunicare e segnano un rigido confine tra lo spazio di apparente contatto tra le due figure e la zona meublée in foggia antica dove i personaggi rievocano, per frammenti, pezzi della loro vita: uno l’infanzia, l’altro la gioventù rivoluzionaria.
Claudio (Matteo de Mojana) si caratterizza per l’etimologia del proprio nome, la claudicanza, e Saturno (Giovanni Battaglia) per il richiamo al mito del dio che divora i suoi figli per evitare che lo soppiantino. Fuor di metafora: il giovane è incerto nel suo incedere incontro al mondo e il vecchio è forse causa di questo passo zoppicante per esser stato troppo narciso verso la sua personalità trascurando quella della prole. Gli abiti sono moderni e casual, per così dire, e questo ci è un po’ spiaciuto, la buona recitazione è piuttosto piana, ma il tutto risulta di una neutralità forse fin troppo neutra. Così come non abbiamo letto una motivazione chiara nei grandi totem prima tavoli poi colonne sollevati a vista tramite carrucole.
Gli elementi stilistici dello spettacolo riflettono un andamento spezzettato, il testo è frammentato, non c’è fluidità, ascoltiamo immagini descritte in parole fotografiche, per flash, non c’è una conversazione reale. La regia pare occuparsi separatamente dei due interpreti, tenendoli a distanza anche quando sono fisicamente vicini. Molto importanti sono i suoni (di Fabio Cinicola): sempre echeggianti, creano un ambiente che dà l’idea del vuoto, come nella case abbandonate, le sedute delle poltrone quando ci si alza scattano secche con colpi che sembrano spari, e ogni scatto segna un a capo nel dialogo discontinuo tra Claudio e Saturno, ma anche nel dialogo che i personaggi hanno con loro stessi.
La vera eredità dei padri è declamata, davanti agli spettatori notai, in un bellissimo testamento di Saturno che lascia al figlio le strade che non ha percorso, i luoghi che non ha visitato, le possibilità che non ha còlto. Queste cose sono tutto ma non sono nessuna cosa in particolare, e il padre chiede che vengano sepolte con lui. Si porta nella tomba il non fatto. Un bel finale.
Ma il finale dello spettacolo è invece il giovane Claudio che imbraccia la chitarra elettrica e suona alcuni accordi (che a noi, lo diciamo sommessamente, sono sembrati The End dei Doors) in una luce blu.
Le generazioni che ora indagano sulle proprie origini sapranno smettere di incespicare nelle buche del passato per diventare grandi davvero?