VINCENZO SARDELLI | Vuoto, tonalità grigie. Assenze, attese da vertigine. Anime fuori posto, iati relazionali. Con Uno, nessuno e centomila, per il secondo anno consecutivo al Teatro Sala Fontana di Milano, Roberto Trifirò approfondisce la propria personale ricerca su Pirandello, dopo le regie e interpretazioni di Non si sa come e Il piacere dell’onestà, oltre alle novelle Piccinì e Notizie del mondo.
Caos delle forme e della vita. Spaesamento. Nel preambolo dello spettacolo, quattro personaggi si muovono straniti sul palco, automi dai legami fittizi. In Uno, nessuno e centomila la forma del romanzo consente più liberamente di una pièce strutturata di addensare nuclei tematici capaci di rispondere ai bisogni dell’io. Il protagonista Vitangelo Moscarda esterna i propri interrogativi interiori in un percorso mentale che condivide con il pubblico. Con la frammentazione dell’individuo si consolida, battuta dopo battuta, l’idea della vita come enorme pupazzata. Gli spunti sono una miriade: dal relativismo al contrasto tra vita e forma; dall’umorismo al sentimento del contrario.
Se nelle dostoevskijane Memorie del Sottosuolo Trifirò, anche lì regista e protagonista, si eclissava dalla storia sprofondando in una botola che era prigione e tomba, stavolta è la fuoriuscita dalla botola che dà il la allo spettacolo. La metafora è, pressappoco, la stessa.
La riduzione drammaturgica limita all’essenziale gli elementi narrativi. Rispetto all’originale sono elisi i passaggi più scabrosi e violenti. Trifirò si concentra sull’io. Questa messinscena – quasi un monologo in cui il protagonista alterna confessioni e riflessioni psicanalitiche con dialoghi sporadici – esprime bene l’inconcludenza della vita. È uno dei motivi più tipici del relativismo pirandelliano. Il protagonista, per motivi banalissimi, diviene pazzo. Pazzo, s’intende, agli occhi della falsa normalità borghese. Ma tant’è. Moscarda scopre che il proprio io non ha consistenza: è un flusso di percezioni mutevoli, un insieme di frammenti che cambiano di minuto in minuto. Il soggetto non c’è più, sparso nelle cose. Ogni unità è smarrita. Come ricorda il finale: «Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola: domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo […] Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori».
Un effetto sconcertante: scambi, opposizioni, combinazioni di oggetti comuni. Voci fuori campo. Un gioco di luci e immagini alla Magritte, fatto di bolle, nuvole, occhi su fondo azzurro: la realtà ottica è espressione diretta del pensiero. Qua e là ombre cinesi e movenze da teatro di figura (oniriche o a volte didascaliche). Varietà di stili, varietà di musiche: Brian Eno, Nino Rota, ballate popolari russe, C’est si bon cantata da Yves Montand, Capricci per violino di Paganini.
La vita non conclude perché è un flusso continuo. Non può placarsi. Non può fissarsi in forma. Se si fissasse, morirebbe. Sarà per questo che il palco è un tracciato di righe bianche, quasi a contenere la deriva centrifuga del personaggio dissolto in scena. Quasi lo si volesse imbrigliare, dettandogli posizioni precise.
La scompaginazione dell’io non riguarda solo Trifirò-Moscarda, se è vero che sono due le attrici che interpretano Dida, la moglie di Moscarda: la terrestre Federica Armillis, e la più aerea Laura Piazza. Con loro in scena anche il direttore di banca Quantorzo (Alessandro Tedeschi). E una poliedrica Emanuela Villagrossi, in stampella dopo un infortunio, anchilosata come certe comparse inquietanti di Kieslovski, o come l’altro inetto per eccellenza della letteratura italiana, Zeno Cosini. Per il quale persino camminare era divenuto «un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso».
Uno spettacolo surreale e allusivo, equilibrato e ben recitato, che nel biennio è sembrato crescere ulteriormente in essenzialità e coesione.