MATTEO BRIGHENTI | “Ho vissuto 17 anni di teatro, ce l’ho nel DNA, mi è rimasto dentro a livello molecolare. L’ho riconvertito per altre persone e in altri luoghi, dove secondo me ce n’è più bisogno: nei posti di lavoro.” Iacopo Braca l’ha detto e l’ha fatto davvero: niente più Teatro Sotterraneo, niente più palcoscenico. L’ultima volta che ci siamo incontrati, erano i giorni di Esperimento Deserto del vulcanico Alessio Martinoli, la decisione era presa, ma non ancora realizzata. Dopo un anno, il trentenne Braca non è più un attore o un performer, è un life & sport coach e Jangol non è solo un obiettivo di cambiamento, è realtà. L’azienda, costruita insieme ad Andrea Parigi, crea prodotti formativi di empowerment e coaching per condividere consapevolezza, benessere e felicità, e ha tra i suoi clienti eccellenze come Gucci o l’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze.
I protagonisti, adesso, sono altri, sono gli altri. Giù dal palco. La riprova è stata tornarci sopra.
A fine marzo sei andato in scena con Post-it a ‘DIECISOTTOZERO’ la festa dei 10 anni di Teatro Sotterraneo al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci.
“È stata una sensazione molto bella a livello emotivo, una pacificazione verso il gruppo, ma anche verso un luogo. L’ho vissuto come un’esperienza nuova, se vuoi, con distacco. È una comunità di cui ho fatto parte, con la quale ho lottato, sudato, fatto i conti a fine mese dei soldi che c’erano e non c’erano. Ora però non è più la mia strada, non mi interessa più, sono focalizzato su altro.”
Ti sei reso conto che la scelta di lasciare il gruppo era quella giusta.
“Sì, è stata la quadratura del cerchio. Poi, esattamente il giorno dopo, ho iniziato un lavoro con i dirigenti del Meyer di Firenze, il primo grosso incarico preso con Jangol.”
Adesso sei un life & sport coach. Che significa?
“Il coach non è un insegnante, né un formatore, è una persona che ti aiuta a utilizzare a pieno il tuo potenziale. Mi piace molto perché non mi mette in una posizione egoica, al centro della scena, quello che ho fatto per anni con il teatro, anzi, devo sottrarmi, farmi da parte per dare spazio alla relazione, all’ascolto dell’altro.”
Come sei diventato un coach?
“Ho studiato la Programmazione Neuro Linguistica (PNL), ho fatto un master per imparare a lavorare con gli sportivi e una scuola di coaching per capire le tecniche di questa disciplina, basata sull’attivazione di processi cognitivi attraverso le domande: ciò che scopri di te, da solo, non lo dimentichi più. Quella è la tua natura più profonda, più vera.”
Una pratica molto socratica.
“Il metodo viene da Socrate, il primo coach della Storia è stato lui. Il coaching moderno si deve a un americano, Timothy Gallwey, ex allenatore di tennis, che si è reso conto di quanto suscitare nelle persone processi di consapevolezza e quindi di autocorrezione sia più efficace di qualsiasi insegnamento.”
Che difficoltà hai incontrato nell’avviare la tua nuova attività?
“Le difficoltà sono state in primis verso me stesso per capire profondamente che direzione prendere, e come, con quali strumenti. È stato un lento percorso di crescita interiore, mi sono formato e allenato tanto per ripartire da zero con questo mio nuovo io. Ci sono stati errori, fallimenti, ma fanno parte del processo di apprendimento delle regole di un nuovo territorio. Lentamente, mattoncino su mattoncino, mi sono creato un altro ruolo sociale, un altro ‘vestito’ da mettermi.”
Il teatro ti ha aiutato?
“All’inizio non lo usavo, anzi lo tenevo lontano. Poi ho capito che era una risorsa: il teatro nasce dal rito, dal bisogno di relazionarsi e creare esperienze comuni. Così, ho coniato un mio metodo che unisce, attraverso gli strumenti del coaching, il teatro con la meditazione e lo yoga. Sono riuscito a riconiugare alcuni progetti che avevo in testa da tempo in una forma che mi piace: mettere al centro l’altro.”
Ciò che fai ora è più utile, più sincero di quello facevi prima?
“Secondo me il futuro non sarà separazione e quindi dualismo, ma integrazione, che crea dialogo, possibilità di muoversi verso direzioni innovative. Prima ero uno che ‘andava contro’, ora penso che si debba ‘andare verso’ per trasformare. Il teatro come istituzione è indietro su questo. Ho visto soprattutto situazioni di conflitto, barricate: quando ci sei dentro sembra che sia un mondo fantastico, da fuori invece ti accorgi che è una realtà molto piccola che dialoga solo con se stessa. Lo posso dire liberamente perché non coabito più quei luoghi.”
Perché hai scelto proprio il coaching?
“Credo fortemente che adesso bisogna lavorare nei luoghi di lavoro. Le risorse umane sono esseri umani che hanno delle necessità e più un’azienda ci sta attenta più i suoi dipendenti lavorano meglio, e non vanno a cercare fuori, in altre cose (la palestra oppure un week-end al mare), quello che possono trovare durante le ore di lavoro. Quindi sto cercando di capire come creare degli allenamenti per tenere in esercizio le buone pratiche individuali, dei semi che vanno a far crescere un buon modo di lavorare. Senza l’aspetto motivazionale, quelle cose orrende come i giochi di guerra, che creano dei picchi tanto emozionali quanto passeggeri.”
Se si sta meglio, si lavora meglio e quindi si è più produttivi. Una ricetta anticrisi che mette al centro la persona.
“Tante aziende si richiamano all’eccellenza. Dove sta? Deve esserci un’eccellenza anche umana, nelle relazioni, non solo nei prodotti. Dobbiamo lavorare tutti insieme per costruire un’etica del profitto.”