VINCENZO SARDELLI | «Cosa sarà che fa morire a vent’anni, anche se vivi fino a cento»? La tana, della Compagnia pratese ZiBa, Menzione Speciale Bando Anna Pancirolli 2014, che abbiamo visto a Milano a Campo Teatrale, è uno spettacolo di teatro fisico che rende l’idea di un tempo che ci possiede senza essere posseduto.
Una casa come una caverna. Un uomo (Lorenzo Torracchi) e una donna (Laura Belli) prigionieri di se stessi: si destano in due casse adagiate su terriccio bruno. Un ossessivo gocciolio di sottofondo scandisce un tempo ripetitivo e astratto. Il risveglio è degno di due morti viventi: non è sonno, è torpore dell’anima. La mise da pagliacci grotteschi, pantofole e accappatoio rosa sopra il pigiama a pois lei, giacca gialla minimalista e pantaloni a quadretti lui, non scaccia un senso di precarietà e assopimento.
Il clima è da teatro dell’assurdo. Le domande perdono senso e diventano un rituale, un modo per testimoniare la propria esistenza.
La tana è una casa cadente, dove appassiscono due esseri in disarmo. Il soggetto di Laura Belli e Lorenzo Torracchi, con il regista Marco Cupellari, è la quotidianità di una coppia sclerotizzata nella routine. Gesti ripetitivi, gorgheggi scimmieschi. Parole biascicate, gracchianti, disumane. Andature anchilosate. Sguardi perplessi, allucinati, persi in un orizzonte indefinito. L’aspetto sconvolto e trasandato di chi è abituato a dormire male (o troppo) e nun ja fa manco a lavarsi la faccia, è esasperato dai ricci impazziti di lei e dalla barba arruffata di lui. Tipi come topi: mangiano, giocano, dormono anche da svegli. Guardano Peppa Pig allo sfinimento. Duettano sulle note di Enola gay, in un ballo da fine del mondo.
Affogate di malinconia in una carnascialesca festa telecomandata al ritmo del Ballo di Simone, queste due creature infognate parlano per modi di dire (e per modo di di dire). Sembrano darci approssimative lezioni di vita per quel loro farsi brillare gli occhi davanti a cose da nulla: una manciata di patatine; una salsiccia e una birra; dei palloncini da gonfiare; una pistola ad acqua. Oppure un pacco da ricevere. E allora – per dirla con un’altra frase fatta – «l’attesa del piacere è essa stessa piacere».
La tana è un talentuoso spettacolo da saltimbanchi sospeso tra il Beckett di Aspettando Godot e Finale di partita e il Fellini di La strada. Il disordine c’è, anche quando non si vede. Il tempo è una variabile capricciosa. Esseri fragili e solitari, incapaci di vivere, muoiono di solitudine.
È un gioco di coppia dove si prova, senza riuscirci sempre, a sostenersi a vicenda, a prendersi cura l’uno dell’altro. Un po’ come in Due passi sono di Carullo e Minasi, a turno i due protagonisti guardano le stelle o il terriccio sotto i loro piedi. Lui e lei, normalmente immobili, normalmente apatici. L’incomunicabilità è eloquente.
Le premesse di questo spettacolo sono intelligenti e sagaci. I riferimenti a Beckett (e a Ionesco) si sprecano. Ma qui non si trovano le profondità e le riflessioni di quel tipo di teatro. Si svicola nel comico. Si strizza l’occhio al grottesco. S’introducono temi moderni e attuali. Si perde il senso dell’atemporalità. Questo forse rappresenta il limite dello spettacolo, ondeggiante tra assurdo e comico, tra dialogo e afasia. E con un finale lasciato a metà, irrisolto: sbrigativa via d’uscita all’inspiegabilità dell’agire umano.