RENZO FRANCABANDERA | Il tema dell’alimentazione, Expo, e così via… Salteremmo un’intro sulle ragioni di una scelta che riporta Lorenzo Loris sul terreno della drammaturgia iper contemporanea di cui è frequentatore occasionale, avendo finora più spesso preferito autorialità del secondo dopoguerra, diciamo drammaturghi e testi più legati agli anni 60-70. Insomma Rodrigo Garcìa, l’argentino delle periferie di Buenos Aires, con il suo Note di cucina, è una sfida sicuramente per il regista dell’Out Off. Lo è adesso e lo era a maggior ragione nel 2004 quando propose il testo per la prima volta, sempre all’OUt Off.
Torniamo quindi sull’intro che abbiamo saltato per dire che si, certamente l’occasione della riproposizione sarà pure Expo, ma questa questione poetica, letteraria, concettuale, era già stata al centro dell’interesse artistico. All’epoca i tre attori in scena furono Gigio Alberti, Elena Callegari, Mario Sala, un trittico che più Out Off non si può.
Ora per il remake Loris sceglie Mario Sala, Massimiliano Speziani, Monica Bonomi che quanto ad outoffezza sono decisamente in linea con la tradizione. Forse Speziani un po’ meno continuo, ma sta recuperando forte e la presenza della colonna Sala a distanza di undici anni fa media per questo che, a tutti gli effetti, deve evidentemente intendersi a questo punto uno spettacolo di repertorio, ancorchè questo teatro milanese non abbia mai ritenuto il concetto di repertorio come elemento fondante di una poetica che invece trova proprio nel continuo innesco la sua forza motrice.
Andiamo allo spettacolo, agito su un’installazione pittorica di Giovanni Franzi, che racconta una società alle prese con la fagocitazione di cibo e forse più ancora di se stessa: questo è il cuore dell’allestimento ma soprattutto del testo che mescola in modo audace, a tratti folle, non sempre continuo ma sempre tagliente, “fuori”, distonico, il rapporto fra gli individui, letto attraverso una vicenda surreale che non ha nulla di erotico ma è sessuale, non ha nulla di sociale ma è politica, non ha nulla di rivoluzionario ma è sovversiva.
L’allestimento scenico si dota di due pannelli di proiezione laterali e uno a fondo sala, su cui vanno in onda dei video inserti, che hanno a che fare con il tema della macellazione, della dimensione carnivora e violenta dell’alimentazione.
Questo tema affiora di tanto in tanto nei video-inserti scenici di alcune recenti regie di Loris, ma di rado il tema arriva a quel giusto contrasto con quanto il testo fornisce, e a volte suona più didascalia. Insomma dovrebbe ricavarsene fastidio o qualsiasi altra dimensione di estraneità al sensibile.
Purtroppo nella società al tempo di Esselunga e Auchan, con il bancone carne in bella mostra e sul fondo i macellai a tritare e tagliare in diretta, video di questa specie non aggiungono sentimento o emozione e a volte invece che scandire un ritmo lo tolgono. Segnaliamo peraltro, e questa è una considerazione personale, che forse hanno allora ragione d’essere ben più forti le provocazioni performative come quelle di Garcìa stesso, dove in “Accident: matar para comer” ovvero “Incidente: uccidere per mangiare” faceva bollire in scena un’aragosta, facendone sentire il sibilo di sofferenza, o dell’austriaco Hermann Nitsch con le sue performance estreme di ammazzamento in pubblico all’interno di una teca, di animali, come nella tradizione contadina. O gli esempi di rituali panici cui Jodorowski fa spesso menzione nei suoi scritti.
ll medium video, che subito nella nostra coscienza si avvicina al televisivo, proprio in proposte come queste della macellazione trova su quel livello di dettaglio rispetto alla pornografia della carne, del cibo e all’ostentazione della violenza un paragone da cui risulta subito purtroppo perdente rispetto a quanto la tv propone. Il tutto proprio mentre il testo pare decollare, come nell’altissima ed erotica elencazione dei verbi, in cui eros, cibo e corpo umano si fondono sulle labbra di un’ispiratissima Monica Bonomi, che li declama in impermeabile e a cosce schiuse, con un effetto deflagrante sul potenziale di questa testuali anti narrativa.
Perché alla fine, il rapporto fra la donna e uno dei due cuochi è totalmente un pretesto, mentre il testo è essenzialmente un insieme di micromonologhi su situazioni assurde del vivere, in cui il cibo diventa elemento per fare distinzioni di classe, genere, idea.
Il testo ha momenti di maggior ispirazione, spiagge di fine sabbia lirica su cui le onde della drammaturgia si infrangono ora forte, ora piano, e su cui la regia ben si appoggia, ma non è esente da fasi di stanca, di risacca. Qui forse qualcosa in più poteva esser fatto, oltre al lavoro degli attori che pure resta meritorio, che ben lavorano in trio per trasportare sempre la parola in un universo di simboli e concetti che parte dal reale per atterrare in un immaginario che si presuppone individuale, soggettivo, quello del pubblico, un pubblico finanche evocato, ripreso da telecamere, videoriportato.
Detto questo, lo spettacolo forse conserva un sapore un po’ vintage, che non bastano le video inserzioni a togliere via. Insomma, la minestra resta buona, ma forse andava ricucinata ex novo, ripensata, ribollita. Non in senso stretto, ovviamente.