GIULIA MURONI | “Gli «uomini di Mahagonny» costituiscono una banda di eccentrici. Soltanto gli uomini sono eccentrici. Soltanto attraverso soggetti a cui compete per natura la potenza virile può venir dimostrato illimitatamente fino a quale grado i riflessi naturali dell’uomo siano stati resi ottusi dalla sua esistenza nella società odierna. L’eccentrico non è altro che l’uomo medio ridotto all’osso. Brecht ne ha messi insieme parecchi in una banda.”
Così si pronunciava Walter Benjamin a proposito di “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, libretto a cura di Bertolt Brecht sull’opera musicale di Kurt Weill. Si tratta della parabola scenica di una città sfavillante dominata dal denaro, dalla prostituzione, dalla lussuria; una sorta di paese dei balocchi per adulti. In questa acuta disamina Brecht anticipa in modo geniale le nevrosi e le schizofrenie della società dei consumi. Mahagonny sembrerebbe rappresentare l’utopia, presa nel suo senso etimologico di “ottimo luogo che non è in alcun luogo”, in cui esiste tutto ciò che normalmente si può soltanto desiderare, fino al momento in cui la sua costruzione si rivela una clamorosa débâcle, il cui destino è sgretolarsi, travolgendo con i luccichii illusori i suoi abitanti.
La compagnia Il Mulino di Amleto, guidata dalle regia di Marco Lorenzi, ha portato la sua originale lettura del capolavoro brechtiano con il titolo “Mahagonny. Una scanzonata tragedia post-capitalistica, come prima nazionale nel cartellone della ventesima edizione del Festival delle Colline Torinesi, in corso a Torino dall’1 al 20 Giugno.
L’azione sul testo brechtiano sembra volerne risaltare l’attualità senza riproporre fedelmente i passaggi testuali o le scelte estetiche e tuttavia non abbandonando l’ordito della narrazione. È la collettività dei personaggi a raccontare la vicenda, agendo sulla scena perlopiù nella sua totalità. Gli abitanti di Mahagonny sono sette uomini, camicie a scacchi e magliette stampate, e una donna: la prostituta Jenny Hill, occhiali da sole, caschetto biondo e tubino rosa. Senza quinte, sul bianco abbacinante del tappeto pochi elementi: delle sedie, un tavolo, il calco in gesso di una città sulla ribalta. Da un lato, extradiegetico, un individuo fa da voce narrante esterna: un po’ riprende le fila della faccenda, raccontando i fatti, un po’ li infarcisce di aneddoti e facezie; assume il ruolo straniante delle didascalie nel teatro brechtiano. Nell’altro lato ma fuori dalla scena è un pianoforte a coda, suonato da Gianluca Angelillo, a contrappuntare o sottolineare l’andamento della narrazione.
La coralità che costruisce lo spettacolo è energica e efficace nel disegnare una massa disordinata. Durante gli intervalli musicali (soprattutto “Bill” dei LunchMoney Lewis) è una danza di gruppo, gestuale e dinamica a movimentare la scena, invasa di una diffusa luce bianca. Luce che invece si fa ambrata e accompagna i dialoghi tra due o tre personaggi, focalizzando geometrie luminose dove si situa l’azione. Le musiche di Kurt Weill sono abbandonate, per dare spazio a melodie dei nostri tempi. Nel complesso lo spettacolo, pur presentando delle acerbità, mostra di essere animato da un’idea vivace e dal fresco talento della compagnia. Il regista, Marco Lorenzi, dice che “lo spettacolo punta a raccontare il contemporaneo come una barzelletta che non fa ridere”; perciò il registro grottesco è quello dominante e la parabola brechtiana si fa immediata metafora della fallacia della nostra epoca. La seconda parte sembra risentire di un ritmo un po’ troppo concitato e una tonalità sempre frenetica, tuttavia gestita con brio dai giovani interpreti.
Lo scenario distopico di Mahagonny è stato concepito dall’autore come compromesso tra teatro “gastronomico” borghese, volto ad una fruizione più superficiale, di pancia, e il teatro epico-critico, in cui lo spettatore, rifuggendo ogni forma di immedesimazione, è reso consapevole della propria condizione sociale e invitato all’azione. Il genio brechtiano continua a interrogare e scalzare dalle posizioni comode chi fa teatro e chi ne usufruisce, lodevole la volontà di mostrarne la pregnanza ai giorni nostri.
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