RENZO FRANCABANDERA | Praticamente la Maggiore età.
Inequilibrio Festival lo storico appuntamento della nuova scena tra teatro e danza a Castello Pasquini in Castiglioncello (LI) arriva al traguardo dei 18 anni con sussulti di novità e continuità, in una tradizione che pur nell’avvicendarsi delle direzioni artistiche, ha mantenuto intatte alcune questioni fondanti come il rapporto con la comunità, quello con gli artisti che il castello ospita in residenza durante il periodo invernale, e soprattutto quello con il concetto di tempo, come elemento relativo alla creazione artistica. Era stata infatti coraggiosa la scelta di affidare ad alcuni artisti la possibilità di lavorare su vere e proprie trilogie, e ancor più coraggiosa e’ stata la scelta di innestare all’interno della proposta del festival queste creazioni. Il festival quest’anno è cominciato il 24 giugno e proseguirà fino a domenica 5 luglio con 13 prime nazionali: inizio con la Compagnia Lombardi-Tiezzi che ha portato in scena Inferno 900 – Dante e il grande giornalismo del secolo breve, uno spettacolo di Federico Tiezzi con Sandro Lombardi e David Riondino, drammaturgia di Fabrizio Sinisi.

A cosa abbiamo assistito: venerdì 26 giugno, arriviamo troppo tardi per assistere a Morte Araba di Maurizio Saiu, una coraggiosa proposta, o meglio per certi versi riproposta di un lavoro di questo poco conosciuto ma assai interessante coreografo e pensatore del corpo danzato, sardo di nascita e curioso di nazione, tanto da girare il mondo ed essere poco conosciuto a casa nostra. Il suo spettacolo suscita una grande emozione che raccogliamo fra gli spettatori all’uscita.

Sono quasi le 23, e l’unica possibilità che ci resta è assistere ai primi 20 minuti proposti dalla Compagnia Angelini/Serrani – Teatro Patalò di Silenzi – frammenti di un discorso di coppia. Due protagonisti in scena un uomo che una donna. Il loro pare un insano E federale desiderio di presenziare a cerimonie funebri. L’inizio dello spettacolo e folgorante, la recitazione surreale su un testo assurdo e godibilissimo. Come molti di questi esperimenti è la durata a sancire la tenuta dell’ispirazione. Nei secondi 10 minuti questa purtroppo flette, nella ricerca di una terza via fra la comicità da sitcom e il duo assurdo in stile Ionesco. Buona partenza ma occorre tenere il motore su di giri, con altre idee forti che rompano perfino la gabbia dell’unità stilistica, cosa per la quale non basta l’introduzione del codice musicale.

E siamo a Sabato 27 giugno. Il festival si anima con le premiazioni de Lo straniero, che vede in due giorni arrivare come premiati Vinicio Capossela e una delegazione di No TAV, o Saverio La Ruina, per menzionarne alcuni.

Torniamo però agli spettacoli, e al segno lasciato dalla proposta di danza, con Irene Russolillo e il debutto del suo A loan e la Compagnia Simona Bertozzi / Nexus  con Animali Senza Favola.

Il primo è un gioco di parole che fa intendere come si tratti di un assolo ma anche di un prestito da una suggestione shakespeariana. La Russolillo pare interessata a questioni connesse al dialogo culturale fra corpo spirito, fra osservazione di sede all’interno ed all’esterno, quasi di aura mistica e sensitiva, con uno spettacolo che inizia su una camminata lenta e le parole di una traccia che ha il sapore del diario. Di qui ossessioni e accartocciamenti su cui in futuro la danzatrice del gruppo Aldes potrà utilmente interrogarsi per affinarne il senso profondo e arrivare a nominare il tipo di sensazioni che si vuole trasmettere al pubblico, cosa che sicuramente avvantaggerà la trasmissione delle stesse e la distillazione intorno alle sue intenzioni più primitive, forse junghiane.

Simona Bertozzi – Animali senza favola

Ormai definitivo nella meccanica elegante e nella capacità di farsi narrazione pur senza drammaturgia è Animali Senza Favola, il nuovo progetto di Simona Bertozzi e del suo gruppo di danzatrici. C’è pochissimo da dire e ovviamente come sempre tantissimo quando ci si trova davanti a lavori così belli, capaci di letture multiple, che agiscono sui piani e livelli di comunicazione molto molto diversi fra loro ma tutti profondamente coerenti, figli innanzitutto di impegno durissimo sul corpo e di disciplina quasi ginnica, sincronica, che trasuda in ogni momento di una performance capace di descrivere una collettività vivente, in cui si incarnano regole fisiche assolute ma specificità che distinguono gli esseri gli uni dagli altri. Attraverso movimenti ginnici, corse in cerchio, unioni e divisioni, come stormi, come greggi, come branchi, queste creature vivono la loro identità di gruppo ma anche le disperanti solitudini del vivere.

Un esito a tratti commovente, che dura circa 60 minuti e del quale intorno ai due terzi si ha la compiuta sensazione di essere di fronte ad un capolavoro, nonostante una sorta di doppio finale a dieci minuti dalla fine, che incarna, secondo l’autrice, una sorta di volontà che l’opera stessa non si esaurisca in sé, ma muova verso nuove aperture: fondamentalmente il rischio riesce, pur non aggiungendo particolari questioni a quanto lo spettacolo ha fino a quel punto già offerto, una proposta comunque imperdibile in cui si segnala il talento cristallino di una magnetica Stefania Tansini.

Abbiamo ancora il tempo di assistere a due proposte di prosa. La prima è Inglese senza professore, libera traduzione e adattamento di Sebastian Bărbălan e Alice Maestroni de “Englezește fără profesor” di Eugène Ionesco (la prima versione de “La cantatrice chauve”), per la regia dello stesso Bărbălan, che è anche in scena insieme a Lorenzo Berti, Valentina Bischi, Pravas Guido Feruglio, Alice Maestroni, Tazio Torrini, Silvia Tufano. Bellissimi i costumi di Annalisa Galli, intenso il recitato, che riporta alla memoria Kantor alcune questioni affrontate dal linguaggio teatrale già in diverse occasioni. Ed è questa l’unica grande pecca di questo onestissimo e sudato prodotto, ossia di proporre il ritorno ad un codice già molto esplorato. Per il resto nulla si può dire ad un gruppo di attori che cerca di creare un’atmosfera psicotica e soffocante.

E chiudiamo con lo studio diretto da Vincenzo Manna di Roberto Zucco, uno degli ultimi scritti di Bernard Marie Koltes, che racconta la vicenda Roberto Succo, il criminale reo dell’omicidio dei genitori a Mestre 1981, e di altri cinque omicidi in Francia durante la latitanza seguita alla fuga dall’ospedale psichiatrico. Il controverso personaggio che morì poi suicida con una busta di plastica infilata in testa (particolare che lo spettacolo ricorda) viene riletto nei 20 minuti proposti a Castiglioncello da Manna e dai suoi attori attraverso il rapporto con alcune figure femminili della sua vita.

Ci sono delle intenzioni, che nei 20 minuti è difficile valutare nell’insieme, essendo frammenti di episodi diversi che hanno bisogno di rodaggio per mettere in comunicazione diversi piani. Il giovane regista drammaturgo pare scegliere un codice ibrido fra verità-cronaca e finzione-ossessione, giocando su un criminale molto sottile, esasperando il quale il rischio principale è quello di abdicare un po’ alla perversa poesia che invece Koltes ci pare abbia sparso, e che si gioca tutta sui rapporti interpersonali. Forse, verrebbe da dire alla fine del tempo, serve togliere, per arrivare a toccare più in profondità, senza accanirsi su un’atmosfera monocordemente ossessiva.