MM__M2_ph_Antonella_CarraraRENZO FRANCABANDERA | C’è una quota significativa del voyerismo che spesso affiora negli spettacoli di Cuocolo/Bosetti in MM&M – MOVIES, MONSTROSITIES AND MASK – la nuova creazione di IRAA Theatre andata in scena nella rassegna Da vicino nessuno è normale, organizzata come tutte le estati da Olinda presso gli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano. La passione per il linguaggio cinematografico, per il montaggio, per il sistema dei segni, per la polisemia arriva in MM&M quasi alla sua declinazione più parossistica, con la Bosetti che diventa narratrice ma anche oggetto di un’indagine video che si fa quasi scopìa clinica.

Il lavoro vuole interrogarsi sull’identità e sulla natura artificiale di ogni autobiografia e partendo da elementi autobiografici affronta, come in fondo anche le altre creazioni del duo vercellese, il rapporto realtà/finzione e l’ambigua relazione tra attore/persona e personaggio.

La struttura dello spettacolo da questo punto di vista è semplice quanto ingegnosa: il campo di battaglia è un tavolo, su cui sono disseminati oggetti, libri sul cinema aperti, piccole nature morte, e dove al di qua e al di là del tavolo sono seduti i due artisti. Cuocolo dà le spalle al pubblico, è seduto all’angolo destro del tavolo e muove una videocamera e alcuni altri oggetti che dispone sul tavolo, la Bosetti invece è al di là, rivolge lo sguardo al pubblico, munito come nelle ultime produzioni del duo di cuffie per l’ascolto a distanza. La meccanica dello spettacolo è tutta qui: una storia raccontata al microfonino auricolare, fruita dal pubblico tramite le cuffie per permettere alla suadente voce della Bosetti di diventare confessione intima e soggettiva, sovrapposta allo stimolo visivo delle riprese dal vivo che Cuocolo realizza, muovendo la telecamera per inquadrare di volta in volta nuovi oggetti sul tavolo, le diverse foto e immagini, ritagliate, montate, quasi sezionate. Fino ad arrivare al corpo della Bosetti, fino a indagare le minuscole pieghe delle sue labbra mentre parla, in un rapporto quasi morboso con l’immagine.

L’intenzione si fa poi narrazione, in un percorso speculare fra vita e cinema, dove l’evoluzione del linguaggio del grande schermo diventa pretesto per raccontare barlumi di storie di famiglia, impastate a citazioni di film prese quasi come verità assolute, come in fondo sono state in quel rapporto mitico fra vita e grande schermo per la piccola borghesia che nel trentennio Cinquanta-Settanta usciva dalla crisi postbellica per iniziare a guardare a nuove speranze.

La creazione porta a compimento una serie di riflessioni già avviate in diversi spettacoli, di cui quasi condensa nella forma più estrema le intenzioni.

Se quindi nel decalogo artistico della compagnia è menzionato chiaramente che occorre annullare la distanza tra attore e personaggio, essere entrambe le cose, e partire dall’autobiografia per la consapevolezza che le vite degli artisti e degli spettatori non sono poi così dissimili, in MM&M la relazione intima e interattiva, che lega e al contempo allontana arriva ad una sua linea quasi estrema. Sia in The Walk, ma ancor più nel The Diary Project e in Theatre on a line si era dato il tema della Bosetti che narrava interponendo uno strumento tecnologico fra lei e il pubblico, anche dove presente nello stesso luogo fisico.
Qui in MM&M non solo lo spazio udito è artificiale, ma anche quello visto, con una serie di immagini che rileggono la realtà che abbiamo davanti agli occhi. A ben riflettere anche questa circostanza si era già data, ad esempio in Private Eye, dove l’unico spettatore entrava in una stanza da letto con la Bosetti, e la guardava al buio attraverso un binocolo di tipo militare.

L’epifania dell’artista è molto più cinematografica e si staglia in grande dimensione sul telo in fondo alla sala, megaschermo su cui scorrono immagini della storia del cinema riprese dai libri sul tavolo con una costruzione in diretta che vuole intrecciare e aggiungere simboli, significati, pertinenze al messaggio drammaturgico principale.

Il plot si avvicina, a volte in modo un po’ “pericoloso”, a quello di The Secret Room, di cui ricalca l’impianto emotivo, i climax, anche se in questo spettacolo l’irrisolto prende più spazio e il finale resta più incompiuto, etereo, proprio nella ricerca di un’omologia tra cinema e mente e nella possibile parentela con l’inconscio di questa macchina dei fantasmi, come la definiscono Cuocolo e Bosetti, nella contrapposizione fra la vita eterna che la pellicola regala e la caducità del reale, come se la Bosetti fosse una Dorian Gray regalataci in carne ed ossa.

L’intenzione è di grande interesse: l’insistenza sull’immagine iconica, un certo disturbo nella strumentazione tecnica, una trama che non si struttura attraverso conflitti psicologici o reali di una certa corposità, però, rendono questo rapporto di immersione nella crudeltà meno intenso di quanto probabilmente agli artisti stessi possa interessare. Sia dei puntelli alla trama che una diversa dinamica del rapporto con l’immagine filmica rispetto a questa versione proposta che sta iniziando il suo percorso verso il pubblico, potrebbero produrre effetti più spiazzanti, come pure una presenza assenza dell’uomo-camera, il cui dato fisico, che si presenta attraverso le mani, pare quasi contaminare il rapporto iconico con l’attrice-protagonista.