RENZO FRANCABANDERA | Dal 4 al 19 luglio, tra musica e teatro, con Francesco Tricarico, quotidiana.com, Riserva Canini, Paola Tintinelli e più di dieci compagnie selezionate da IT Festival 2015. Questo è in sintesi il programma di Città Balena, progetto di Teatro i che sceglie come icona il cetaceo bianco riprodotto su uno striscione davanti alla sede di Via Gaudenzio Ferrari, da un annetto e mezzo aperto in una funzionalità ampia anche negli spazi al pian terreno.
Città Balena è un progetto che nasce per avvicinare gli artisti al pubblico e il pubblico agli artisti, che ha percorso emergendosi e inabissandosi per tutta la stagione 2014-15 di Teatro i. Dopo gli appuntamenti di settembre e febbraio/marzo, la rassegna continua anche in piena estate, per quindici giorni, con un programma ricco di appuntamenti, attraverso luoghi e linguaggi differenti, con una serie di spettacoli scelti in joint venture con IT Festival, da cui è stato preso a piene mani per un assaggio di quello che di più nuovo viene pensato a Milano sui linguaggi della scena, in spazi non teatrali, come nella natura del progetto Città Balena.
Tra i tanti gruppi coinvolti, abbiamo visto di recente Circolo Bergman, con un progetto site specific per Città Balena, ispirato al tema goethiano de Il giovane Werther (ancora a cuore aperto, aspettiamo un po’ più di sostanza drammaturgica, al netto di tecnicalità da audiopercorsi, già viste in altre occasioni in città e non solo, cui forse si può anche rinunciare senza grossi rimpianti. Prossima occasione di crescita il Franco Parenti fra pochi giorni), gli Oyes con l’avvio di un’intelligente riscrittura di Zio Vania di Checov, diretta da Stefano Cordella con Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso e Fabio Zulli, dove Vania tifa Milan e vive la sua dimensione straniata e stordita, mentre attorno un mondo lucido e cinico gli sfila la dignità e le emozioni sotto i piedi (bravi gli interpreti, servirà rodaggio, concentrazione e una lettura dei personaggi capace di evolvere).
Ci concentriamo qui su due lavori di maggior struttura, di artisti anagraficamente omogenei, pur se votati a forme espressive e ricerche differenti.
Ci riferiamo al lacerante Oh… tu che mi suicidi, progetto di Lello Cassinotti e Nino Locatelli liberamente tratto da Van Gogh il suicidato della società (Antonin Artaud) e giunto qui all’undicesima tappa di un percorso tra musica e parole su cui vale la pena spendere qualche parola e a L’anarchico non è fotogenico di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni (quotidiana.com)
Il primo è una libera re-interpretazione dal saggio Van Gogh il suicidato della società, una delle ultime opere di Antonin Artaud, scrittore, poeta e pensatore della scena diventato icona di un certo tipo di teatro per tutto il Novecento e non solo. Il saggio, pubblicato la prima volta nel dicembre 1947 vinse il premio Saint-Beuve l’anno dopo e si basa sull’idea portante di rivalutazione della figura del genio e dell’alienato come portatore di una verità scomoda da accettare per la società normale, che spinge queste intelligenze all’autoemarginazione e al suicidio metaforico o letterale. L’artista vero, in quanto portatore di una sensibilità borderline è di fatto assimilato al folle da Artaud, che pure ebbe a che fare con il sistema psichiatrico, ri-centrando il fuoco sulla figura dell’alienato, la cui sensibilità superiore viene schiacciata per non comunicarla alla normalità, zittita. Ecco dunque Van Gogh come emblema di una sorta di riscatto dell’alienato che trova la forza di esprimersi. Cassinotti, che ricerca spesso tra l’altro dell’intersezione fra scena e suono, ribadisce questa sua vocazione con un progetto singolare, che prevede un numero limitato di repliche e sulle cui intenzioni profonde le parole di Cassinotti sono chiare: “Abbiamo deciso che Nino avrebbe suonato esclusivamente un mezzo tono, senza sapere quale … è capitato G2 Ab2. Siamo stati molto contenti della serata…Avrebbe dovuto essere una estemporanea ma abbiamo poi immaginato di poterla riproporre altre 53 volte in virtù dei 54 possibili semitoni che si possono ottenere dal clarinetto contralto. Ad ogni tappa del progetto il semitono che verrà suonato sarà determinato tramite estrazione ad esclusione di quelli già utilizzati”. Teatro i ha ospitato la decima tappa di questo lavoro poetico, affidato all’interpretazione disillusa, fragile, assente, intensa e rossa del duo Cassinotti-Locatelli, il cui connubio si fa apprezzare in un evolvere denso di pathos. Il progetto cerca nuove case, teatri, luoghi dediti alla sensibilità in cui poter continuare le repliche fino alla nr 54.
Il secondo è una variazione sul tema dell’ormai decennale (e di fatto unico) monologo diviso in capitoli esistenziali che Paola Vannoni e Roberto Scappin, in arte appunto Quotidiana.com, hanno iniziato a scrivere; una sorta di pluriennale flusso di coscienza in scomode dispense, con cui la caustica coppia ribalta, fra nonsense, assurdo, senso comune e soprattutto dissenso poco comune, una serie di questioni sul vivere, rivolgendosi ad un pubblico spiazzato dal loro volutamente goffo tentativo di sembrar seri, a dispetto del fatto che loro vogliano esserlo.
Tempo fa in un viaggetto in auto con i due artisti mi chiedevo come mai non avessero mai deciso di affrontare un classico, a modo loro. Ecco la risposta in una trilogia, di quelle sostenute da Inequilibrio /Castiglioncello: il progetto Tutto è bene quel che finisce. E’ proprio nell’elisione finale del titolo del Bardo l’idea portante di una trilogia di cui L’anarchico non è fotogenico è il primo capitolo, del 2014, presentato appunto a Teatro i in questo contesto.
Tre sono i capitoli, performance autonome o unica partitura, che compongono la “Trilogia dell’inesistente”, percorso che si svolge in forma di dialogo e di monologo, prendendo a pretesto il tema della morte. Il secondo capitolo, Io muoio e tu mangi, rimprovero rivolto al figlio dal padre morente, ragiona sul tema della accettazione della morte ma soprattutto di quanto fatto in vita, in termini anche sociali. Il terzo capitolo, Lei è Gesù, propone un Cristo donna che non si sottomette al volere del Padre negandosi alla crocifissione.
La dicotomia che a loro riesce meglio rispetto a quasi tutti gli altri che in Italia si accingono a proposte sulla stessa cifra, è fra sembrare ed essere, fra la verità e il dubbio, fra dittatura del pensiero unico e pensiero debole, in un’alternanza fra i due artisti in scena che non dà mai certezza su chi sia il portatore di una o dell’altra metà della mela. Anche perchè il tutto è sussurrato, come quelle chiacchere che si fanno d’estate sul balcone e che si concludono ripetendo le ultime parole dell’altro, prima di schiaffeggiarsi il polpaccio preso di mira da qualche zanzara.
Eh si, eh già, la morte dici eh… e così il filo si dipana fra questioni esistenziali, sociali e (rarissimo, visto che in Italia non si può per copione) persino morali e religiose, con un’irriverenza che alla fine suona molto più “morale” di tantissime riverenze e genuflessioni cui il Bel Paese ci abitua.