MATTEO BRIGHENTI | Tre giorni sono piccoli e pochi. Mercoledì 8, giovedì 9 e venerdì 10 luglio il Festival Alchimie, alla sua terza edizione, ha costruito qualcosa di grande e tanto: un teatro all’aperto per Fiesole, i cui legami di cittadinanza si sono stretti su un palcoscenico di sguardi, gesti, frasi da condividere, trasmettere, imparare. Lontano dai caotici e impersonali riflettori del centro, in provincia, è ancora possibile riscoprire un senso di autentica appartenenza a una comunità. Per questo il direttore artistico Marco Di Costanzo e il Teatro Solare, che ne ha curato l’organizzazione all’interno dell’Estate fiesolana, hanno presentato ai loro concittadini Arianna Scommegna, Lorena Senestro e Gli Omini, perché Potevo essere io, Madama Bovary e La famiglia Campione sono specchi dentro cui riconoscersi e possibilmente migliorarsi.
Una caparbia rivoluzione del possibile che, dopo gli spettacoli, ho cercato di esplorare insieme agli artisti e al pubblico rimasto ancora in ascolto.
“Il senso di trovarsi qua, insieme, forse per me vale più di tutto. È molto raro e prezioso, e chi si sbatte a fare teatro penso lo faccia proprio perché crede sia necessario stare insieme. Questa semplicità l’ho trovata in Potevo essere io, in Renata Ciaravino che l’ha scritto, in Serena Sinigaglia che l’ha diretto, e adesso anche in voi.”
Siamo alle Terme del Teatro romano di Fiesole, piccolo comune che domina Firenze dall’alto, e Arianna Scommegna ha appena finito di raccontare che le rovine di chi è cresciuto negli anni Ottanta sono fatte di marche, di oggetti, di grandi magazzini stipati di sogni in plastica che speravano di poter realizzare, e poi o non li hanno realizzati o hanno smesso di sperare. La premio Ubu 2014 riesce a sentire, come cassette in un walk-man, entrambi i lati, quello alla luce e quello al buio, di due bambini che diventano grandi partendo dallo stesso cortile nel quartiere Niguarda, periferia di Milano, li abbraccia di carezze e schiaffi e lo stesso fa con il pubblico.
“Io sono straconvinta della tragicomicità del nostro esserci. Se ci fai caso, non c’è un momento, anche quando sei giù di morale, che non ti succedano delle cose ridicole. Per me non esiste la tragedia se dentro non c’è anche il comico.”
Arianna Scommegna vive Potevo essere io (vincitore del bando Nextwork 2013 e del Festival della Valtellina 2014) in ogni virgola, pausa, giro di pagina, e diventa anche paesaggio urbano in continua evoluzione grazie ai video di Elvio Longato.
Per quanto tu possa inventarla più bella fin da piccolo, la vita, comunque, ti travolge. “Ogni volta che faccio questo spettacolo lo dedico a chi non si perdona di non essere stato in grado di aiutare chi amava. Io non so come si faccia, però il modo c’è, la parola ‘perdono’ esiste.”
Il desiderio che inseguiamo fino all’ultimo abbaglio è una realtà fuori della realtà, un nome affermato per tenere lontane le ombre dell’oblio. Lorena Senestro reinventa in scena il suo dentro quello di Emma Bovary. Madama Bovary, da lei anche scritto (finalista al Premio Scenario 2011), regia di Massimo Betti Merlin e Marco Bianchini, è un monologo chiaroscuro che unisce Flaubert e Gozzano, italiano e piemontese, dramma e sarcasmo, dentro e fuori un’attrice in perenne movimento tra corpo, parola e onomatopee (per PAC l’ha recensito Elena Scolari).
“Madame Bovary ha tanti riferimenti indiretti alla mia biografia. Sono cresciuta in campagna, a stretto contatto con la natura, nell’immobilismo e nella noia della provincia – dice Lorena Senestro – a ventidue anni, contro le aspettative della mia famiglia, mi sono trasferita in città per coltivare le mie passioni, prime fra tutte la letteratura e il teatro.” Interviene Massimo Betti Merlin: “Già quando la conobbi mi disse che Madame Bovary era il romanzo che aveva segnato la sua crescita adolescenziale. Non ha mai abbandonato quel sentimento originario del vivere appreso a contatto con i ritmi della campagna.”
Massimo e Lorena sono marito e moglie e insieme, oltre ai figli, una decina di anni fa hanno fatto un teatro, il Teatro della Caduta, una piccola sala da 50 posti in via Michele Buniva 24, a Torino, che offre agli attori la possibilità di sperimentare e sperimentarsi in pubblico (l’ingresso è libero, le serate sono ‘a cappello’). Su questo palco Lorena Senestro ha portato avanti una personale ricerca sull’uso della parola e delle sonorità vocali a partire dai testi letterari, dai passi che le piacciono, dalle frasi di un autore che danno voce a qualcosa che lei ha in mente. La scena è un’immaginazione secondaria, successiva.
È la vita stessa, invece, che fornisce a Gli Omini le parole adeguate che non sarebbero in grado di inventare. La famiglia Campione è un campione di famiglie sondato con incontri e laboratori che hanno coinvolto cinque comuni della provincia fiorentina.
“Facciamo indagini territoriali – spiega Francesco Rotelli – ascoltiamo le persone, le osserviamo e poi cerchiamo di restituire con delle istantanee in scena ciò che ci hanno dato. Ci interessa sempre mettere in risalto i conflitti, le piccolezze, le miserie dell’essere umano.”
I Campione sono 10 individui, 10 tipi che assumono quindi modi e storie di centinaia di persone conosciute per strada, tre generazioni, nonni, genitori e figli impersonati dallo stesso Rotelli, da Francesca Sarteanesi e da Luca Zacchini, mentre Giulia Zacchini è Bianca, la sorella che si è chiusa in bagno e non vuole più uscire. “Questa idea ci è stata confermata da un ragazzo durante i laboratori – continua Rotelli – lui si era chiuso in camera ed è rimasto lì addirittura la sera che doveva venire in scena con noi.”
Il futuro in questo stato, e in questo Stato, è un problema da risolvere, e, al tempo stesso, il motivo che tiene unita a colpi di ironia arcigna la famiglia Campione. Non c’è più la forza di reagire davanti a niente o i genitori, almeno, non l’hanno insegnata ai figli. “Qualche responsabilità gliela vogliamo dare? – domanda Luca Zacchini – poi, sì, noi facciamo di tutto e di più per crogiolarci nelle nostre mancanze. La famiglia Campione, però, punta il dito contro tutte le generazioni, non una in particolare.”
E Gli Omini sono i primi a mettersi in gioco. “I vecchi, se vuoi, hanno quasi solo loro una spinta – conclude Rotelli – hanno molte cose da dirci, perché hanno più tempo e un passato altro. I giovani, invece, spesso li rappresentiamo inconcludenti, e ci dispiace, perché è la nostra di generazione. Ci dispiace e affondiamo il coltello anche su noi stessi.”