ALESSANDRA CORETTI | Nell’irriducibile molteplicità delle espressioni teatrali s’inscrivono pratiche che mettono in crisi, di continuo, le certezze sceniche. Non alludiamo a prassi codificate, bensì ad esperienze che, per prassi, si pongono degli interrogativi estetici subordinati ad esigenze etiche (o viceversa?): entrare in relazione con il proprio tempo. All’interno di questa geografia teatrale collochiamo anche il lavoro di Gommalacca Teatro, compagnia – riconosciuta dal MiBACT come Impresa di Innovazione Teatrale – nata a Potenza nel 2005 per volontà di Mimmo Conte (attore/regista) e Carlotta Vitale (attrice/educatrice). La conversazione che segue nasce non da mera curiosità, ma da una serie di risonanze scaturite dal vocabolario professionale dell’ensemble. Attraversando alcuni aspetti della ricerca del gruppo abbiamo tentato di comprendere come si sviluppa un ecosistema teatrale in un territorio non avvezzo al teatro. Il teatro che c’ho in testa, rassegna estiva organizzata dalla compagnia al termine dei percorsi laboratoriali e di ricerca avviati nel 2015, è stata la scusa per conoscere meglio la formazione artistica potentina; dal confronto emerge un racconto prezioso, che molto rivela sulla progettazione di attività teatrali al di là dei tracciati culturali convenzionali.
Il teatro che c’ho in testa è la rassegna che ha riunito gli esiti scenici dei vostri ultimi laboratori. Un bilancio sull’esperienza, quanto ha segnato la vostra prospettiva di ricerca e soprattutto qual è il teatro che Gommalacca “ha in testa”, ovvero spera di realizzare?
La rassegna, alla sua seconda edizione, nasce da un’esigenza specifica: fare palco durante l’anno e diversificare gli spettatori, in realtà distribuiamo l’attività di educazione teatrale nell’arco dell’intero anno proponendo eventi di varia natura come Le colazioni filosofiche, le matinée per i piccoli nel nostro spazio off, le anteprime del lavoro di ricerca dei laboratori. Lavorando a Potenza da dieci anni abbiamo riscontrato delle criticità territoriali legate alle consuetudini (o meglio alla loro assenza) con cui le persone percepiscono la scena e l’attività di formazione teatrale (anche se questa parola “formazione” non rende l’idea). A teatro si va molto poco anche quando si sceglie di seguire un laboratorio teatrale, come se si volesse imparare a giocare a calcio non vedendo neanche una partita. Abbiamo cercato quindi di invertire questo dato culturale adottando una progettualità mossa da nuove necessità. Nei primi anni di vita ci siamo concentrati sulla produzione di spettacoli scritti da noi, legati a temi che sentivamo l’urgenza di far emergere. Da quando abbiamo acquisito stabilità con l’attribuzione di una sede, l’U-Platz, Spazio civico e teatrale, il lavoro ha preso una nuova direzione, abbiamo inaugurato La Klass Laboratori di ricerca scenica, chiamando a raccolta persone dai 13 ai 65 anni, che con noi hanno lavorato alla creazione di drammaturgie originali e che hanno sostenuto la compagnia con una quota di corresponsabilità. Al momento seguiamo la nostra irrequietezza naturale, ogni anno cerchiamo di capovolgere lo sguardo e di spaziare. Siamo affascinati dalla comunicazione del teatro, dalla scrittura per il teatro, dalla macchina umana che assorbe il reale e lo trasforma. Il teatro che abbiamo in testa è quello che produce spettacoli, che gira e che riesce a sostenere il lavoro di organizzazione, ricerca, drammaturgia e allestimento. Abbiamo in testa di portare il nostro teatro fuori dai confini nazionali, di attraversare altre culture, di essere felici facendo ciò che amiamo fare.
Gommalacca Teatro dà grande importanza e spazio a momenti laboratoriali come La Klass Laboratori di ricerca scenica, qual è il metodo di ricerca scenica che adottate?
I laboratori sono dedicati, in gran parte, allo studio del mimo corporeo, dell’improvvisazione, al rafforzamento dell’apparto vocale e della presenza scenica. Noi partiamo dall’uomo, dal corpo e da ciò che rappresenta come crocevia di culture, di passato e presente. Siamo per lo sforzo, il sudore e la ricerca della bellezza individuale, crediamo nella fatica del levigarsi, ascoltarsi e prima di tutto conoscersi. I nostri percorsi laboratoriali non prevedono un tempo finalizzato allo studio di un copione; o meglio il “testo”, che sia parlato o fisico, si costruisce nel mentre, e non prende mai un tempo di prova, cresce dentro. In questo modo quest’anno abbiamo lavorato su La dodicesima notte e la drammaturgia di Eduardo.
Mi sembra di capire che spesso partiate da un testo classico, per poi ricavarne una scrittura scenica a sé stante; come lavorate nella riattualizzazione dei testi? Perché la ritenete importante?
Conoscere i testi classici, moderni e contemporanei crediamo sia, come il lavoro sul corpo, un ottimo allenamento per la lingua e l’immaginazione. Spesso accade di non trovare una propria corrispondenza in ciò che è già stato scritto, o che ciò che è scritto inneschi assonanze, contaminazioni con altri testi, con la cronaca o con la storia contemporanea. Abbiamo lavorato per tre anni su Antigone, partendo da Sofocle fino ad arrivare alle riscritture contemporanee del testo, tra Maria Zambrano, Valeria Parrella e Ali Smith. In effetti in questo caso non abbiamo operato una vera riattualizzazione, ma costruito una dialettica tra la voce del singolo e quella del coro, abbiamo cercato un’unità senza trovarla, così abbiamo trasformato Antigone in Ilaria Cucchi che non rivendica la sepoltura, ma la giustizia per il corpo morto del fratello. Oltre a nutrire la nostra ricerca pensiamo sia importante lavorare in questo modo perché ci permette di sviluppare un’etica professionale in rapporto alla storia e alle trasformazioni sociali in atto. Crediamo che il teatro possa fungere da facilitatore, rimettere al mondo la dignità delle esistenze ed essere un valido strumento per creare/fare comunità (parola che tra poco diventerà odiosissima come creatività, ovvero come tutte le parole di cui si abusa).
Quali sono i nuovi lavori a cui vi state dedicando?
Stiamo lavorando alla nostra nuova produzione di cui abbiamo presentato un primo studio al Festival delle Cento Scale di Potenza. Nuova malattia organizzata (questo il titolo provvisorio) è la storia dell’assenza di un padre, di un figlio che vorrebbe non nascere, di una nazione alluvionata, disfatta, è la storia della ricerca di una patria. Cos’è la patria? Un luogo dove sentirsi al posto giusto.