ALESSANDRA CORETTI | Dal Garage Comunale di via San Vincenzo alla Sanità riparte il viaggio nelle fitte maglie di Alto Fest. Siamo in pochi, raggiungiamo con allure consumata una cavità dell’autorimessa, e ci accovacciamo a gambe incrociate, su uno scomodo terriccio, in posizione frontale rispetto all’area di azione. Il colore tetro del luogo e lo stantio odore di muffa fanno presagire qualcosa di oscuro. Ha inizio tra presentimenti funesti l’ultima opera di TeatroInRivolta, Kaninchen, lavoro ispirato alla vita dell’attivista tedesco autore dell’attentato contro Adolf Hitler. La performance è il risultato di un intreccio – da cui purtroppo non trapela una convincente urgenza – tra corpo, fatica e polvere; l’estenuante danza di Marcello Serafino, autore anche del testo della performance, sembra incastrata in una partitura fisica volta ad estrarre uno spirito ingombrante imprigionato nel proprio corpo. Ci relazioniamo all’opera astraendola, ovvero trascendendo i confini del luogo e delle presenze sceniche. Viviamo un’esperienza, che ci mette in contatto con un ossessionante senso di morte.
Voltiamo totalmente registro dirigendoci al Pepi Vintage Room Bar, il tempo di ordinare un calice di prosecco e siamo invasi da una staffetta di colori e musiche; enormi sorrisi e labbra rosse, abiti color oro, boa di struzzo, calze a rete. Un trio di vedette, fuggito da un programma di varietà, dà vita ad una festa degli arti. Sgambettanti e ammiccanti, le attrici intrattengono il pubblico accalcatosi in vico San Domenico Maggiore. Sketch e canzonette azionano la macchina del tempo che di colpo ci catapulta nelle atmosfere del Cafè Cyrano – titolo anche della performance – luogo cult degli anni Trenta passato alla storia come ritrovo dei surrealisti.
Non riusciamo a capire verso quale finale virerà lo spettacolo, abbandoniamo quell’eccesso di moine e vivacità, insieme alle bollicine del nostro bicchiere di prosecco ancora mezzo pieno, per spostarci in vico San Pietro a Majella alla volta di BIOS. Il lavoro della compagnia Pietribiasi | Tedeschi ha sin dall’inizio una buona tensione, data dall’interazione ben congegnata tra corpo umano e dispositivi tecnologici; in scena, inizialmente, un uomo che lotta con la riproduzione virtuale di se stesso. Mani e schiena del performer diventeranno le superfici di proiezione su cui il protagonista riflette la propria ombra, a grandezza variabile, mentre in sottofondo vengono elargite istruzioni per affrontare bene la giornata. Una serie di radiografie (che scopriremo solo alla fine riprodurre animali) andrà a formare un pannello spartiacque – promosso ad elemento drammaturgico – che fungerà da sfondo nella prima parte dello spettacolo, e da filtro, da superficie di visione, nella seconda parte dell’opera affidata all’agilità coreutica di Cinzia Pietribiasi. La performer, muovendosi al di là del pannello, rivelerà la sua presenza per gradi, disseminando tracce del suo corpo attraverso lo spettro radiografico. Un modo, con margini interpretativi molto ampi, per affrontare la dicotomia tra uomo e donna, tra piccolo e grande, tra pieno e vuoto.
Tra i lavori più intensi ed apprezzati di Alto Fest 2015, Selbstbezichtigung/Autodiffamazione del duo Barletti | Waas. In questo lavoro emergono con forza le dimensioni di necessità ed energia essenziali per l’azione performativa. Per circa un’ora il duo italo-tedesco “recita” un elenco (testo di Peter Handke), una lista di convenzioni sociali violate, ovvero una fiera ammissione di colpe. I due performer entrano in scena con i loro disarmati e disarmanti corpi nudi, che vestiranno solo in seguito. Assistiamo ad una sorta di processo pubblico in cui la morale sociale sembra prendere il sopravvento su quella individuale.
L’ultimo giorno del festival è dedicato ad un interessante simposio a cura dell’Osservatorio critico, che si distingue dai canonici coordinamenti critici di supporto alle arti sceniche, per non voler entrare nel merito delle singole visioni o delle scelte estetiche operate dagli artisti, optando invece per un focus sul festival e sulle sue politiche organizzative. L’incontro verte sulla condivisione di un’esperienza, ancora non del tutto conclusa, che merita, per la sua radicalità, un approfondimento specifico. Alto Fest configurandosi, al momento, come un processo non un prodotto, richiede un’analisi che non si rapporti ai risultati raggiunti ma a quelli auspicabili e alle direzioni intraprese. Il simposio quindi, si rivela essere un prezioso momento per tirare le somme e affrontare le criticità congenite ad un esperimento di tale portata. Se alcune posizioni, largamente condivisibili, hanno sottolineato l’importanza di una manifestazione di questo genere, in un Paese come l’Italia che dal punto di vista artistico (e non solo) ha abdicato a lavorare “nel solco di una tradizione del nuovo”. Altre hanno individuato dei punti di debolezza strutturali di cui tenere conto nel tratteggiare il profilo della sesta edizione, primo fra tutti il senso di disorientamento derivante dal percorso complesso del festival e dalle enormi distanze che dividono le varie location scelte per le performance, evidenziando quanto questo gap sottragga energie e tempo utili a favorire l’incontro tra artisti, pubblico e operatori, rinunciando a uno scambio fondamentale che agevolerebbe la tanto sognata rigenerazione sociale.