Antonio-Latella-Caro-George-photo-Brunella-GiolivoVINCENZO SARDELLI | Caro George, testo di Federico Bellini, regia di Antonio Latella, con un ispirato Giovanni Franzoni in scena, è un monologo di dolore, follia e solitudine. L’ex Ospedale psichiatrico Gaetano Pini di Milano, con le sue atmosfere livide e spersonalizzanti (rassegna Da vicino nessuno è normale) ne è forse la location ideale.

Ottobre 1971. Mentre Parigi celebra una mostra personale di Francis Bacon, George Dyer, suo modello e amante, muore per una dose fatale di barbiturici e alcol.

Scenografia astratta da stanza spoglia. Una sedia, una bottiglia di vino e un calice. Abito bianco a mascherare storture interiori e sensi di colpa. Caro George racconta quell’episodio. Rievoca gli anni di un rapporto sadomasochistico e l’ambiente in cui Francis e l’amico vissero. Una storia di gelosie, invidie, ripicche, fomentate dallo stesso Francis. Dyer non ne regge il peso. La relazione con Bacon si fa sempre più difficile. Fino al vortice di alcol e droga. Al suicidio. L’apparente crudeltà di Bacon si sgretolerà per far posto alla nostalgia, forse al rimorso.

Bacon in un tragico epitaffio affermò: «La mia vita è stata un disastro. Molte delle persone che ho conosciuto erano ubriache o si sono suicidate e tutti quelli cui mi sono veramente affezionato sono morti in una maniera o nell’altra. È solo quando sono morti che si capisce fino in fondo quanto li si amava».

Tutt’altro che un passatempo voyeuristico, indugiare nella vita privata dell’artista è una necessità. Ovviamente è sintetica l’evocazione che qui Latella mette in scena: una specie di ritratto di coppia. Le zone d’ombra che rimangono fra vero e verità sono quelle in cui l’arte si ritaglia il suo spazio rispetto alla cronaca.

Che cosa vedeva Bacon in fondo all’anima di George? Quale strazio intuiva, ancor prima dell’epilogo?

Parole strappate al silenzio. Franzoni dà corpo ai sentimenti di Bacon. Entra sottovoce, svogliatamente. Risuona il rumore metallico di una pallina sulla roulette: è l’arbitrio di due vite, il destino ha scelto incroci stravaganti.

Candida come appare (i costumi sono di Graziella Pepe) l’immagine onirica di Bacon si scontra con quella reale. Lo iato scelto dalla regia introduce alla dimensione mentale e fantastica. L’anafora un po’ marcata, “costruita” («avresti dovuto vedere, George») con cui il pittore si rivolge all’amico, in una performance in cui anche seduto l’attore dà vigore a un teatro di forte intensità fisica, esprime rimpianto, colpa, frattura dei sentimenti. Le parole si deformano, s’intersecano con gesti nevrotici. Percepiamo lo squilibrio tra riso e pianto, smorfie sinistre, un mix di gioia e dolore.

Affiora un rapporto profondo e viscerale, sofferto e problematico, che artisticamente è testimoniato dai numerosi studi e ritratti di cui Dyer fu protagonista nell’opera omnia dell’amico e amante. Parola dopo parola, Bacon perde ogni autocontrollo. Le sue parole sono il disperato tentativo di colmare un’assenza aggrappandosi al ricordo. Diventano logorrea, magma ininterrotto, mix di rabbia, dolore, disperazione, amore. Sono riflessioni sull’altro e sulla propria identità, sul fluire della vita, sulla morte, sul senso dell’esistenza e della pittura stessa. Alla fine, con una virata alla Jean Genet, Francis lascia spazio a George, a evocare l’epilogo nel bagno parigino.

I titoli di coda sono smorfie mute, con un Franzoni che si contorce nudo sulla sedia, immobile e ipercinetico, il viso sempre più rosso e scomposto. Intrecci di dolore e follia. Grumi di materia pittorica e sangue. Sesso e nostalgia. Una voglia d’infinito, che rievoca i cieli di Van Gogh. Il finale è un po’ “telefonato”: il vino versato in cerchio, su fogli e abiti sparpagliati sul pavimento. A marcare un territorio che non si possiede. A definire la prigione dell’anima.

Restano sensazioni fortissime, un testo di forte intensità poetica, e un lavoro sull’attore studiato al dettaglio.

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