UnknownRENZO FRANCABANDERA | Sono abbastanza allergico agli studi. Lo studio è quella atroce abitudine in voga nei teatri di ospitare e presentare in forma aperta al pubblico fasi di gestazione di una creazione scenica, allo scopo di testarne un po’ la solidità nel rapporto fra spettatori e chi è in scena. Per anni i festival ne sono stati pieni. Poi l’opera definitiva non arrivava mai. Terzo, quarto, quinto studio su questo o quello…
A volte invece l’opera definitiva arriva presto, prima che l’idea profonda, le intenzioni artistiche si siano sedimentatate lucidiamente nella volontà del regista.
Tutto questo per dire che? Per parlare di quello che a conti fatti è un vero e proprio ripensamento di Enrico Casale e della sua risposta alla commissione artistica sul Caligola di Camus arrivatagli ormai due anni or sono da Maria Pietroleonardo del Pim Off di Milano e proposto nella sua prima versione, Kaligola, l’anno scorso dopo un laboratorio tenutosi nel teatro milanese.

Si trattò di un esito che abbiamo anche documentato, e in cui la ridondanza di alcuni segni rendeva l’intento di fondo un po’ nebuloso. Ecco perchè l’inversione di rotta radicale che Casale ha impresso a quell’idea originaria, e sottoposta al pubblico alcuni giorni fa al Franco Parenti di Milano in occasione di “Padiglione Teatri”, il progetto che dal 13 al 30 luglio offre alla città 58 spettacoli prodotti da 58 diverse compagnie e teatri milanesi in un unico cartellone, è parso un bagliore improvviso e squarciante.

La Compagnia degli Scarti è una giovane e molto attiva realtà teatrale spezzina, guidata da Andrea Cerri ed Enrico Casale e residente al centro Dialma Ruggiero della Spezia, un gruppo senz’altro originale nel panorama artistico nazionale, capace di abbinare le intuizioni manageriali di Cerri, riconosciute anche dal Ministero per le Attività Culturali che ha proprio in questi giorni individuato questa realtà come una fra le più interessanti emergenti in Italia, tanto da renderla assegnataria di un significativo contributo, e la creatività senz’altro atipica di Casale, regista con una passione quasi pasoliniana per l’attoralità bruta, fincanche naïve per certi versi, come alcune regie (Big Biggi tra le altre) dimostrano.
E’ forse in questa predilezione lo scarto principale e la ragione del ripensamento su Kaligola di cui stiamo parlando, perchè forse l’idea di fondo di Casale, di dimostrare come il sommo male, la crudeltà irrazionale, possa albergare, anzi, per certi versi è naturalissimo che alberghi nell’uomo qualunque, nella prima genesi soffriva del troppo in cui era affogata.
E per dimostrarlo, rispetto a quel primo esito, arriva ora una rilettura molto più asciugata, con un occhio più spinto al cinema, specie a quello muto degli anni 20, a Das Cabinet des Dr. Caligari di Wiene, giusto per citare il caso più noto.
E anzi, la trovata geniale e risolutiva è proprio l’incrocio fra il sistema di didascalie, le eco che dal testo di Camus si irradiano, e un plot che guarda alle riscritture sceneggiate dei classici letterari di fine Ottocento inizio Novecento sul rapporto fra l’uomo e la bestia che gli alberga dentro.
In scena, in un fantascientifico laboratorio futuribile, non meno espressionista di quello di Wiene (la scenografia è molto ridotta rispetto alle citazioni di ispirazione costruttivista che alimentavano l’allesitimento precedente) A riportare in vita Caligola sono un dottore e un suo ambiguo assistente, che a tratti ricorda l’Igor del Frankenstein Junior di Mel Brooks, dove al posto del saio insiste sul capo un ridicola capigliatura a caschetto dal sapore Made in Japan.
La trama è classica: si tenta il risveglio in laboratorio del mostro (in questo caso un giovane Caligola che ha perso gli attributi di crudele imperialità per rimanere praticamente vestito di un saio, ma in realtà non è nel suo animo che alberga la crudeltà che si vorrebbe distillare ed eradicare dal mondo e il finale sarà (in modo divertente e imprevedibile) assolutamente scontato. Dopo l’analisi del potere politico dell’ Ubu Rex (2011), e del potere “domestico”, intimo e interpersonale de La serva padrona (2012) la “Trilogia del Potere” si completa con il tema della mostruosità del potere, incarnata da Caligola, imperatore romano celebre dalle fonti storiografiche per la sua eccentricità e depravazione. Ovviamente è Caligola, ma potrebbe essere Hitler o qualsiasi altro dittatore, potente, eccentrico e lussurioso, e gli esempi non mancano.
E così, attingendo a tutto ciò che è stato scritto su questo controverso personaggio storico, da Svetonio a Tinto Brass, la drammaturgia di Albert Camus viene indagata per superarla, tratteggiando un Caligola che prima di esser mostro in sè, lo è in quanto partorito da una società impazzita, la cui salvezza è da vedere forse nella purezza e nel rifiuto degli schemi.
La riscrittura che Casale, con Davide Faggiani, Simone Ricciardi e Michele Bedini danno del classico è quindi un’ibridazione cinematografico-narrativa del topos letterario, in cui dell’originale di Camus resta solo l’impalcatura, il pretesto quasi grottesco, scarnificato in poche battute. Il resto è il copione già scritto dell’umanità, che il teatro porta avanti da millenni, l’eterna lotta fra bene e male, dove spesso il male alberga proprio in chi si fa paladino della sua eradicazione. E la storia recente dell’umanità non lesina esempi, le lotte contro il Male che ogni giorno occupano la cronaca, il sistema di fobie che altre fobie alimenta e nuove guerre e paure, in un ciclo che pare inarrestabile, perchè inarrestabile è la natura umana, mai priva di disinteresse, mai votata al francescanesimo. Sarà per questo che la santità è così demodè e che un papa, che in fondo non fa altro che il suo, diventa un caso eclatante e raro, proprio per la distorsione con cui perfino gli uomini di fede interpreta no questo ruolo con un occhio al materiale più che allo spirituale.
Con “L’ultimo Kaligola”, Casale riduce quindi la compagine attorale dagli otto attori del primo spettacolo a sole tre persone: lui stesso, ottimo nei sorprendenti panni dell’ambiguo assistente, il giovanissimo Marin De Batté, arrivato nel progetto pochissimi giorni prima del debutto ma efficace in questa imberbe dimensione dell’umanità animale, e un Simone Ricciardi da premio, la cui cifra attorale si amplifica in una serie di passaggi psicologici che, annodati al gioco drammaturgico di evoluzione megalomane del rapporto uomo-potere, lo porta veleggiando sicuro fra comiche situazioni quasi da commedia dell’arte fino al drammatico finale, il cui pathos lascia la sala in un silenzio annichilito che si scioglie in un convinto e lungo applauso.
In un’atmosfera che, più che di luoghi reali, è di luoghi della mente, di luci, L’ultimo Kaligola, che a breve replica nel palazzo Vescovile di Troia in Puglia – il 6 agosto per il Festival Troia Teatro, fa ritornare la poetica della Compagnia alla lucida crudeltà dell’Ubu Rex, alla cifra grottesca e insieme espressionista che ci aveva fatto innamorare del talento giovane, geniale e capriccioso di Casale, e che, proprio come fanno le migliori amanti, ti tappa la bocca con un bacio bellissimo proprio mentre ti fa soffrire per le sue assenze.
E L’ultimo Kaligola, con le sue non nascoste pervesioni, citazioni erotico-pasoliniane, il suo essere film muto e allo stesso tempo parola, sussurro, libidine, è un bacio lussurioso da prendere al volo e cercare di prolungare, programmandolo in giro. Chissà che stavolta l’amante non resti un pochino. Senza diventare moglie, però.

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