ALESSANDRA CORETTI | Mentre Alto Fest parla già al futuro tracciando le direttrici della prossima edizione, torniamo sulle orme della quinta ripercorrendone la poetica. Diamo voce alla direzione artistica del festival, rappresentata da Anna Gesualdi, che sottolinea di non aver organizzato né un evento né uno showcase. Ha messo in piedi invece, un cantiere pioneristico con l’intento di stordire la pigrizia dello sguardo spettatoriale. Approcciarsi ad Alto Fest vuol dire aprirsi all’incontro e all’imprevisto. La nostra postura inizialmente non è stata accomodante, ma la diffidenza, dopo le prime ore, si è sciolta diventando negoziabile. Se da un lato pensiamo ancora non si possa parlare di miracolo (motto ereditato dall’edizione scorsa del festival), perché il vero miracolo, oggi, sarebbe trovare la giusta sostenibilità economica che armonizzi il valore dell’attività artistica nella sfera sociale; dall’altro crediamo che questo festival abbia avuto il grande merito di conferire centralità all’atto artistico. In un momento in cui l’arte, soprattutto in materia di politiche dal basso, stenta ad affrancarsi dallo status di supporto, la pratica performativa in Alto Fest sembra non delegare la sua efficacia al sollevamento di una “giusta” causa o a alla risoluzione di un problema contenutistico, ma è pensata come veicolo di valori intrinseci in grado di riflettersi fisiologicamente sugli spettatori. Probabilmente ponendo così il primo – determinante – tassello per il processo di rigenerazione umana.
Che cos’è Alto Fest e quali sono state le novità introdotte nella quinta edizione?
Alto Fest è un luogo di incontro per artisti provenienti da ogni parte del mondo, il programma del festival, composto da quarantaquattro interventi artistici in rappresentanza di ventisette nazioni, lo dimostra. L’edizione di quest’anno ha compiuto un significativo passo avanti con l’introduzione di “Texture – Laboratorio Internazionale di pratiche e visioni di rigenerazione urbana culture-led e performing heritage”. Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con esperienze culturali di operatori provenienti da Olanda, Grecia, Croazia, Repubblica Ceca, con l’obiettivo di sviluppare un apparato critico, che lavori per accorciare le distanze createsi tra spettatore ed evento artistico. La particolarità di “Texture” è il non essere staccato dal progetto di cui tratta, gli operatori coinvolti infatti, oltre a portare la propria testimonianza hanno vissuto il festival, calandosi totalmente nell’atmosfera Alto Fest con gli artisti e gli spettatori, correndo insieme a loro da un capo all’altro della città; perché Alto Fest è anche questo: una corsa dalla collina alle cave di tufo di Napoli, alla scoperta di una città che si rivela sublime nonostante la miseria particolarmente esposta.
I luoghi che hanno ospitato gli interventi artistici sono dislocati in diversi rioni di Napoli, zone popolari incluse. Quali sono stati i principi-guida nella scelta delle location?
Alto Fest vuole comporre un discorso plurale – dal basso verso l’alto – e creare uno spazio di promiscuità dove il cittadino della zona più popolare possa entrare in casa del cittadino che vive in condizioni più agiate. Questo senso di promiscuità è amplificato anche dagli artisti che innestano le proprie estetiche dirompenti, pensate appositamente per il luogo in cui si esse si manifestano. Crediamo sia necessario, infatti, per sviluppare l’apparato critico di cui parlavo prima, entrare in una prospettiva di condivisione del rischio, abbandonare dunque – artisti e cittadini – la sicurezza delle strade già percorse e tentare di costruire qualcosa di nuovo.
Nella diversità dei formati artistici scelti riscontriamo la presenza di un filo rosso che attraversa i lavori: il livello di sperimentazione. Quali sono stati i parametri di selezione usati nella scelta degli artisti?
Nelle proposte che vagliamo – quest’anno, in risposta alla call lanciata, ne abbiamo ricevute duecentocinquanta – valutiamo il grado di rischio e la capacità di approfondimento, che si traducono automaticamente in un’estetica non adagiata in forme artistiche precostituite e conosciute. Per questo nel programma di Alto Fest confluiscono sia progetti in divenire: studi o work in progress, sia lavori già conclusi, nati per teatri o musei, ma pronti ad essere ripensati in nuovi contesti.
Alto Fest è diventato il megafono attraverso cui rivendicare la priorità di una riqualificazione dell’essere umano, come pensate possa attuarsi questo processo di rigenerazione?
Innestando le opere d’arte nella vita quotidiana dei cittadini, principalmente delle persone che partecipano ad Alto Fest in qualità di “donatori di spazi”, perché si crea una relazione indissolubile tra il cittadino donatore e l’artista ospitato, anzi non solo con l’artista ma anche con l’opera d’arte. L’opera infatti si innesta non si adatta; chiediamo all’artista di riformulare la domanda che è alla base della sua creazione e quando l’artista entra in uno spazio donato, essendo uno spazio abitato, entra in un luogo carico di umanità da cui paradossalmente rischia di essere schiacciato. L’artista chiede il permesso, non invade. Nasce quindi una relazione reciproca. Quando io tendo la mano verso qualcuno per donargli qualcosa, egli può scegliere se prenderla o rifiutarla, è costretto comunque a prendere una posizione, genero una domanda e quindi do corpo alla sua presenza. Non a caso il dono è il principio su cui si basa Alto Fest.
Quali sono le evoluzioni a cui state pensando per la prossima edizione del festival?
Per la prossima edizione continueremo a lavorare in una dimensione di internazionalità, caratteristica grazie alla quale Alto Fest ha ricevuto il riconoscimento di Festival d’Europa dalla Piattaforma EFFE, quindi svilupperemo ulteriormente i rapporti con le ambasciate, con gli Istituti di Cultura Internazionali affinché Napoli, la città che ha dato vita ad Alto Fest e continua ad accoglierlo, possa diventare il simbolo di un appuntamento fisso che mette in rete idee, visioni e pratiche. C’è naturalmente una visione-guida a cui tendiamo, che già si intravede nella struttura organizzativa del festival: trasformare in residenza tutti i luoghi donati, perché nelle residenze accade qualcosa di speciale. L’artista ospitato per un lungo periodo in uno spazio quotidiano, che diventa anche il suo campo d’azione, consente di accogliere una comunità nella comunità, innescando un processo di rigenerazione umana – nel suo significato più alto.