FRANCESCA GIULIANI | La solitudine assuefatta da scuri suoni graffianti avvolge e sprofonda figure sclerotizzate in una sorta di virtualità comunicativa e identitaria portata all’ennesima potenza. Chi sono? Uomini e donne d’oggi, racchiusi in gabbie di metallo, isolati l’uno dall’altro da pareti trasparenti. Sembrano in ascolto ma solo di loro stessi. Vivono in un mondo fatto di pensieri esauriti e si costruiscono identità sociali e politiche attraverso le immagini che il web – facebook e you tube – rimanda.
È questo il ritratto di mondo che fuoriesce dal lavoro di Falk Richter visto alla Biennale Teatro 2015. In NEVER FOREVER tutti i personaggi soffrono di una qualche mancanza che li scollega dalla realtà. C’è una terapeuta che si fa troppo coinvolgere dalla follia della sua paziente. C’è un professore universitario che invece di far lezione al suo uditorio assente – studenti cronicamente assuefatti dalla dipendenza dallo smartphone – racconta le sue vite sessuali infarcendole con frammenti di citazioni politiche. C’è un uomo che non trova tempo disponibile per vivere la storia d’amore con una donna che ha appena conosciuto. C’è una ragazza che, non possedendo nessun contatto con il mondo reale, si crea una vita virtuale. C’è un padre che non può coltivare l’amore per suo figlio a causa dell’ex-moglie che l’ha allontanato. C’è un’ex attrice, la famosa Ilse Richter, una delle prime interpreti dell’opera di Thomas Bernard, che vive solo nella memoria dei personaggi che ha interpretato e non prende in nessuna considerazione la figlia che si sente sola.
Amalgamando azioni e personaggi attraverso la combinazione frammentata di storie narrate, gridate, e di coreografie convulse di corpi spasmodici che continuamente crollano a terra come se le ossa si sfaldassero l’una sull’altra, la scena tumultuosa e assordante di Richter si blocca fotograficamente su un eterno presente immobile, fisso, dal quale non sembra esserci scampo. Non c’è una definizione precisa di spazio in questa pièce, il luogo si fa indefinito: una città assente, che richiude i suoi abitanti in scheletrici appartamenti o li getta in alberate piazze vuote. E non ci sono caratteri evidenti: il solo protagonista resta il web, letto come un dispositivo in grado solo di costruire e proteggere l’isolamento delle persone.
Ogni legame comunicativo si sfilaccia e i monologhi non si connettono in nessun modo l’uno all’altro: restano istantanee di personaggi alienati, intirizziti da un abbandono che ormai sembra cronico. Gli avvicinamenti o i possibili contatti dei danzatori del Total Brutal, ensemble del coreografo israeliano Nir de Volff, avvengono sullo sfondo, quasi fuori scena, frangendosi ben presto in movimenti convulsi e disperati.
Nell’ibrido scenico di sequenze coreografiche, monologhi e malinconici quadri – tipico del teatro di Richter – la negatività del presente è raccontata in modo sicuramente evidente. Ma può essere la negatività stessa, l’urlo e lo shock, la forte musica elettrica, tempestata da quei ritmi tecno fin troppo ammiccanti alla cultura underground berlinese, e la scena algida e metallica gli unici tramiti per descrivere e mettere in scena il mondo contemporaneo? Questa visione molto parziale e riduttiva dell’oggi sembra il pretesto per conservare intatto quel formato drammaturgico e scenico, caro al regista tedesco, che è oggi vincente sulle scene europee.