Manfredini

MARIELLA DEMICHELE| Un velatino come fondale. Dietro, in penombra, si delinea la sagoma di un uomo che, lentamente, arriva al centro della scena sulle note dell’aria “Vesti la giubba” dai “Pagliacci” di Leoncavallo: “Recitar!”- così canta Canio nell’interpretazione di Pavarotti – “Tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto, in una smorfia il singhiozzo e il dolor”. Recitare, dunque, come azione “trasformativa” agita in scena da un soggetto: l’attore. Ed è al mestiere dell’attore, al rapporto tra arte e vita che Danio Manfredini, attore e regista riconosciuto come uno dei maestri del teatro italiano contemporaneo, dedica questo lavoro, intitolato Vocazione.

Fin dall’apertura, dunque, il tono che risuona è quello della malinconia. Finita la musica, l’anziano Minetti di Ritratto d’artista da vecchio di Thomas Berhnard, con i suoi occhiali troppo grandi, il cappotto liso e il cappelluccio calcato sulla testa, racconta del suo desiderio di tornare in scena a recitare il Re Lear dopo trent’anni di assenza dalla scena: guizzi di ironia, talvolta feroce, ma non bastano a nascondere la consapevolezza della condizione di solitudine, smarrimento e paura che l’attore, “irrimediabilmente perduto nella materia dell’arte drammatica”, sperimenta quotidianamente. Una presa di distanza, dunque, dalle altisonanti definizioni che fanno dell’attore il “folle”, lo “stupratore dell’arte”, per riconoscere, invece, che la sua vocazione, se autentica, è materia fragile che porta in sé anche il rischo del fallimento: il mondo è pieno di “esistenze artistiche distrutte”, consumate nell’ostinazione di prove solitarie in soffitte di periferia. Qualsiasi “vocazione” è un movimento centripeto: parte dall’esterno per arrivare al cuore. Un’esperienza di conoscenza, di svelamento, dopo la quale non si è più gli stessi. Un amore, in questo caso, per il quale l’attore è disposto a farsi male, a “mettere vestiti” che non gli appartengono, a truccarsi e mascherarsi. Tutto, pur di esporsi al paradosso di quel “gioco”, il teatro, che “non serve a niente”.

Un gioco il teatro. Precario ed effimero come quella pila di sedie che Manfredini e Vincenzo Del Prete – suo inseparabile e affidabile compagno di viaggio – accatastano al centro della scena e che un rotolo di carta igienica srotolato come un nastro e un ventaglio posto in cima riescono a trasformare in una misteriosa ed evocativa installazione. Immaginazione ci vuole. E passione. Oltre ad un duro lavoro. Per trasfigurare la realtà in poesia.

A testi di Manfredini si alternano brani tratti dalla tradizione teatrale: oltre al già citato Minetti di Thomas Berhnard, il celebre monologo Essere o non essere dall’Amleto di Shakespeare, Servo di scena di Ronald Harvood, Il gabbiano e Il canto del cigno di Čechov, Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane e Conversazioni con la morte di Testori, per citare i principali.

Per esprimere in modo estremo quell’esigenza di trasformazione che il teatro impone all’attore, Manfredini riprende inoltre personaggi di suoi precedenti lavori: troviamo, infatti, Erwin/Elvira, il macellaio diventato donna per amore nel film Un anno con 13 lune di Fassbinder, protagonista di uno degli episodi di Tre studi per una crocifissione, e Samira, l’indimenticabile transessuale in minigonna, tacchi a spillo e alucce rosse già vista in Cinema Cielo.

Una tessitura drammaturgica che esprime un percorso individuale che all’esperienza maturata attraverso l’intensa attività teatrale praticata in contesti anche molto lontani dai circuiti ufficiali, a stretto contatto con situazioni di disagio e marginalità, ha saputo unire anche la riflessione critica su di un dibattito che, partito in modo sistematico nel ‘700 con il Paradosso sull’attore di Diderot, ha attraversato tutto il Novecento. Un incalzante interrogarsi su questioni relative non solo alla psicologia dell’attore, ma anche sulle scelte estetiche o morali che regolano l’interazione tra l’aspetto sensitivo ed intellettuale della recitazione, tra “grammatiche” ed autencità. Nella formazione di Manfredini e nella elaborazione della sua personalissima poetica sono evidenti le tracce lasciate da Grotowski e dalla sua teoria dell’ “attore sacro”, da Kantor e dalla Bausch, oltre che dal terzo teatro di Eugenio Barba. L’attore che gli interessa è quello capace di “denudarsi”, in un continuo processo, quasi ascetico, di conoscenza e superamento dei propri limiti fisici e psicologici. E nei passaggi tra un quadro e l’altro gli attori si svestono e vestono spesso in scena, in uno spazio anch’esso nudo, spoglio, occupato solo, sui lati, da un baule, qualche sedia e dall’asta del microfono usato nel finale. Corpi esposti allo sguardo del pubblico per cogliere, nella figura dell’artista, la sua “essenza umana scarna”.

L’autenticità dell’azione scenica, cosa ben diversa dalla semplice credibilità dei personaggi, viene perseguita rinunciando a scelte di tipo naturalistico: ritornano allora, come già in altri spettacoli di Manfredini, sia le maschere di lattice, una recitazione che tende a de-psicologizzare i personaggi mediante una gestualità stilizzata e un tono sostenuto e freddo, volutamente privo di espressività, che la ricerca sulla voce e sul movimento declinata, attraverso la disciplina del training, in molteplici soluzioni sceniche. Guidati da una drammaturgia sonora che unisce generi musicali diversissimi che spaziano da Vasco Rossi a Chopin, si passa dalla sospensione quasi onirica del dialogo tra Nina e Kostja all’avvitamento su se stesso e alla corsa senza meta di Amleto, dalla danza dei due emarginati di periferia a quel corpo attraversato da un fremito quasi animalesco dal quale, sulla diagonale di un fascio di luce, sottile e pallido come una ferita, traboccano parole che accogliamo con un sentimento di grato stupore. Fino al’ultimo quadro. All’ultima vestizione, quella di Samira, alla quale Manfredini affida il compito di sussurrare un segreto. L’attesa, un giorno, di un profeta di vita. Di artisti capaci di “riunire la vita”. E dopo gli applausi, che i due attori ricevono con una compostezza anch’essa rituale, uscendo non possiamo fare a meno di chiederci cosa ha reso possibile questa profonda alleanza tra spettatore e attore, nonostante le imperfezioni, alcune ripetizioni e schegge di superfluo manierismo. Prima di qualsiasi messaggio, sicuramente l’energia dell’attore, il suo bios scenico capace di agganciare cuore e mente di chi guarda. Poi, uscendo, le immagini ancora impresse dietro le palpepre suggeriscono un pensiero: se è vero che tutto ciò che accade all’uomo serve all’artista, forse non sempre è vero il contrario. Ma per riflettere su ciò, ci vorrebbe un altro spettacolo…

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