FRANCESCA GIULIANI | Conversazione con Claudia Sorace/Muta Imago in occasione dell’Hyperion, opera musicale che il gruppo di teatro di ricerca romano presenterà in anteprima nazionale il 26 e 27 settembre durante la Sagra Musicale Malatestiana di Rimini.

È da un po’ di anni che la Sagra Musicale Malatestiana ha scelto di proporre a dei gruppi di teatro di ricerca la messa in scena dell’opera che verrà poi presenta in anteprima al festival settembrino di Rimini. Come vi siete avvicinati all’opera commissionata, l’Hyperion di Bruno Maderna?

Quella che sta mettendo in atto Alessandro Taverna come consulente musicale per la Sagra Musicale Malatestiana è una progettualità di ampio respiro che ha già coinvolto tra gli altri Motus e Santasangre. Non abbiamo scelto noi l’opera ma la commissione è stata fatta proprio pensando nello specifico al nostro percorso artistico. Hyperion è diventato subito il nostro spettacolo, anche nelle modalità di ricerca che abbiamo messo in campo rispetto alla libertà totale che abbiamo avuto.
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All’inizio abbiamo studiato tutto questo mondo per noi sconosciuto sia rispetto all’universo musicale di Bruno Maderna, sia rispetto all’universo poetico e letterario di Friedrich Hölderlin. Durante il percorso ci siamo accorti che si trattava di pezzi. Già Maderna definiva Hyperion “una lirica in forma di spettacolo”. L’opera musicale si presenta come un insieme di parti che lui stesso ha assemblato dal 1964 al 1969 in maniera diversa e che non hanno mai trovato un’unica forma definitiva. L’opera è sempre stata vissuta dal compositore come un tentativo: ha composto vari brani e ha lasciato sempre liberi gli eventuali esecutori di montarli come ritenessero più giusto.

Abbiamo cominciato a cercare i vari pezzi e a tentare di capire che cosa cercasse Maderna, chi rappresentasse Hyperion per lui. Ci sono dei brani molto belli nei quali dice che Hyperion è l’artista, l’uomo che continua a cercare e nonostante tutto non trova pace. È come se il compositore si fosse legato a questa figura mitica di uomo che, come dice lo stesso nome, vuole andare più in alto ma che in realtà continua a cadere. È questo l’unico elemento di continuità tra il romanzo e l’opera musicale: Hölderlin narra di questo giovane greco che alla fine del Settecento va a combattere nel suo paese per ridare la libertà al suo popolo ma rimane sconvolto dalla brutalità della guerra. Hyperion è quattro grandi incontri: da piccolo, con il suo maestro; da adolescente, con un amico che in qualche modo lo tradisce; poi con l’amore, la famosa Diotima che abbandona perché rimanere con lei sarebbe rinunciare a tutto il resto; e con l’ideale, quando va in guerra. Sono tutti fallimenti.

Abbiamo scelto di non restituire cronologicamente il plot, non è nella trama che viene fuori il cuore del lavoro. Ci siamo attaccati a questa figura mitica e abbiamo messo in scena i suoi tentativi, questa sua ricerca di sé per sé: è un uomo che si mette in gioco personalmente e abbiamo cercato di restituire scenicamente questa dinamica di ricerca e fallimento che però passa sempre per il corpo.

 Per questo avete scelto un danzatore?

Esatto, anche perché trattandosi di un’opera musicale, ci sembrava che il lavoro con il danzatore e coreografo Jonathan Schatz potesse stare più profondamente in relazione con la musica. In realtà stiamo chiedendo a questo danzatore di non danzare, o di non danzare soltanto, ma di percepire lo stare in scena come un esporsi, come una ricerca che passa per continui fallimenti. E sono proprio questi continui fallimenti a rendere umano l’Hyperion sia di Hölderlin sia di Maderna. Qua c’è il punto di contatto tra le due opere e il nostro tentativo di mettere in scena la storia di quest’uomo che, come si ripete spesso nell’opera, può essere un dio quando sogna ma è uno schiavo quando fa si che il contesto scelga per lui. Per noi era la prima volta che lavoravamo con un danzatore e c’è stato un approccio diverso rispetto al lavoro che abitualmente facciamo con gli attori. È una conoscenza ed esperienza del corpo molto diversa e per questo tipo di progetto è stato davvero fondamentale aver la possibilità di lavorare sul corpo in un modo così complesso e completo.

Per quanto riguarda la parte musicale qual è stato il vostro approccio all’opera di Maderna?

Riccardo Fazi si è occupato della composizione musicale. Ha attraversato vari archivi e ha cercato, per poi ricomporlo, quello che Maderna aveva lasciato dietro di sé. È un’opera strana questa perché non è mai stata consegnata una versione definitiva. Studiando i vari approcci di Maderna all’opera di Hölderlin volevamo capire da dove fosse partito e dove fosse arrivato. Hyperion, questa grande figura, è al centro. Il compositore ha inseguito come tema la continua e spasmodica ricerca di quest’uomo. In fondo lui stesso è stato un po’ Hyperion: quest’idea di non accontentarsi, di continuare, di essere anche famelici nella ricerca ha contraddistinto sempre il lavoro artistico del Maderna compositore, direttore d’orchestra, intellettuale, una figura senza tregua. E così è stato anche per lo stesso Hölderlin, un artista che non ha mai trovato pace, morto pazzo su una torre circolare dove si ritirò per il resto della vita.

È anche per queste analogie tra Hyperion, Maderna e Hölderlin che abbiamo puntato su questa figura di performer, solo e centrale alla scena, che lavora insieme ai due musicisti che non sono attori ma sono in scena. Quello che succede ai musicisti è in qualche modo analogo a quello che succede al danzatore: mentre lui indaga e cerca, attraverso una serie di tentativi e fallimenti, di scoprire qualcosa in più di sé mettendo in gioco il suo corpo, i musicisti si mettono in relazione con la musica di Maderna. In scena abbiamo scelto di eseguire dal vivo le parti del flauto e del soprano (Karin de Fleyt e Valérie Vervoort, ensemble di Anversa) e l’orchestra non è una riduzione ma è la registrazione in cassa dell’orchestra reale di Maderna e i musicisti in scena ingaggiano quindi una sorta di lotta con quella. Musicalmente nell’Hyperion di Maderna c’è una sorta di lotta fra il flauto e l’orchestra. Il flauto è lo strumento che cerca di farsi spazio entrando in conflitto con il rumore dell’orchestra e per questo abbiamo scelto di dare una personalità, un carattere concreto a questo strumento. In scena la flautista crea come un dialogo con l’orchestra registrata che viene mandata live dal musicista elettronico. Abbiamo cercato di lavorare il più possibile su questo concetto di lotta e di superamento dei propri limiti mettendo in scena questa dinamica da tutti i punti di vista.

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Avevo visto il Cantiere per Hyperion al Teatro Sperimentale di Pesaro. La scenografia è rimasta invariata con la luna gigante sovrapposta al palco?

La nuvola, come definiamo l’oggetto scenico è stata presente fin da subito. Rappresenta lo spazio ideale a cui si rivolge in continuazione Hyperion e in scena il performer vive lo stesso tipo di rapporto con questo oggetto. Si rientra sempre nella dinamica dell’uomo che cerca di stare in alto ma che in realtà continua a cadere: è il dramma della sua esistenza. In scena il performer è sempre in relazione con la nuvola che gli chiede di arrivare a lei. È un rapporto sempre frustante. Si procede per vette e cadute improvvise, c’è sempre questo non vedere mai il reale per quello che è. È la bellezza ma anche il dramma e la follia di Hyperion.

“Quando imparerò a cadere imparerò a conoscermi e forse troverò un po’ pace” dice Hyperion verso la fine del testo. In fondo tutti i fallimenti non sono a vuoto, c’è un’apertura non si cade nella disperazione. È come se questo lungo tentare lo avesse avvicinato molto a se stesso ed è questo il tratto umano di cui parla spesso Maderna avvicinandosi a Hölderlin: non è solo la ricerca del bello e dell’ideale ma tutto è funzionale a una ricerca più interiore.