ELENA SCOLARI | Morti stupide, morti ridicole, morti apparentemente prive di senso. Morti che non si spiegano. La morte è un super tema, da portare in teatro. Come l’amore.
Riflettere sulla morte prima o poi capita a tutti. E capita anche a Francesca Garolla, drammaturga che vive un brillante momento professionale anche all’estero, autrice di Non correre Amleto, in scena fino al 19 ottobre al Teatro i di Milano, per la regia di Renzo Martinelli.
Andiamo con ordine, si parte da un fatto di cronaca: nel 1993 un convoglio di aiuti umanitari diretto in Bosnia, formato da cinque persone, viene attaccato da miliziani. Tre dei cinque saranno uccisi, due riusciranno a fuggire correndo attraverso i boschi.
Da qui in avanti la riflessione si concentra sul fatto che – forse – sarebbe bastato che nessuno si fosse messo a correre perché la vicenda andasse diversamente.
A riflettere in scena sono Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic, entrambi molto molto bravi, due attori con uno stile non convenzionale, lei dotata anche di un timbro di voce molto bello e capace di dare profondità quasi tangibile alle parole, lui con un che di imprevedibile accompagnato da un distacco continuo qui assai appropriato.
Ruolo particolarmente forte hanno anche i suoni di Fabio Cinicola e le luci di Mattia De Pace, così come la regia, a nostro avviso elementi anche troppo presenti, quasi a fare da contrappeso a un testo rarefatto e che procede in modo aforistico. Molti oggetti in scena, molti movimenti, molti stimoli sonori, frequente uso delle luci come elemento drammaturgico. Tutte scelte che, in sé, non sono affatto sbagliate, ma qui sembrano voler riempire spazi che invece in una speculazione filosofico/esistenziale dovrebbero rimanere liberi. Per il bene del pensiero. Si rischia così di evidenziare (pur avendo l’intenzione opposta) una certa fragilità del testo, che tende ad attorcigliarsi intorno ad alcune osservazioni interessanti, ripetendole senza svilupparle.
L’idea, per esempio, che i morti siano veramente tali solo quando tutti lo vengono a sapere, e che pertanto esista un intertempo indefinito in cui la fine non è completa, un momento impossibile da incardinare nelle normali coordinate temporali è un pensiero originale ma che rimane incompiuto, nella rete di dubbi amletici di cui è fatto lo spettacolo. Già, perché di Amleto ancora non si è parlato, è citato nel titolo, creando aspettative sostanzialmente disattese nella realizzazione. Gli accenni a Shakespeare sono nella definizione per quadri, scanditi da scritte su display, dal fantasma iniziale all’Orazio finale. Amleto è anche nelle mazze da golf che Dapcevic maneggia, che si trasformano in fioretti su una ipotetica pedana da scherma, una striscia di terreno scenico, l’unica comune ai due personaggi e che entrambi calpestano, dominata da una lavagna dove si scrivono e si cancellano elementi investigativo/giornalistici che aiutano a fermare i dati dell’avvenimento analizzato.
Gli attori agiscono divisi da una linea di mattoni che forma due spazi distinti, come in NN figli di nessuno, dove la divisione tra i due personaggi era costituita da una fila di poltrone da cinema. Il dialogo è fatto dall’interazione di due monologhi, autonomi ma dipendenti l’uno dall’altro per la costruzione ad incastro del testo, le riflessioni si supportano solo nell’unione. È prevedibile che la separazione verrà superata, e infatti quando Dapcevic esce di scena Ghiaurov sconfina nella sua zona, chiudendo con un epilogo che lascia ai vivi di raccontare una storia non loro, quella dei defunti, insieme alla grana di convivere con l’inspiegabilità della morte. O di alcune morti.
Alla fine rimane la sensazione di un timore irrisolto nell’affrontare Amleto nella sua complessità, lo si tira in ballo in maniera tangenziale, parziale, non sempre giustificata, rilevando solo il suo aspetto dubbioso trascurando che in Shakespeare c’è anche la re-azione, anche se finirà in tragedia distruttiva c’è un piano preciso per rimettere ordine a un caos che si disprezza.
La scelta di riferirsi così marginalmente ad Amleto non giova a uno spirito che vorrebbe rinnovare gli interrogativi con la i maiuscola. Siamo tutti Amleto? Forse. Tutti siamo oggetto di raccomandazioni alla prudenza, spesso inutili, tutti ci arrovelliamo dall’inizio dei tempi per trovare risposte alle grandi domande, ci chiediamo se è il Caso a governare o se è il libero arbitrio a muovere ciò che accade (rileggere Sant’Agostino può schiarire il panorama) e quello che si scopre è la mancanza di logica razionale.
Ma il senso del mistero non è proprio questo?
[…] via Morire di corsa. Tanto stupido da essere tragico — PAC magazine di arte e culture […]