VINCENZO SARDELLI | Un cast di primissima scelta. Un testo immortale, capace di scuotere la nostra quotidianità. La descrizione di un’umanità sul baratro. Ivanov, di scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino all’11 ottobre, è la prima grande opera teatrale scritta da Anton Čechov. Racconta l’ultimo anno di vita di un uomo che fa i conti con la propria incapacità di vivere.
Attraverso la figura di un inetto che piega la propria volontà all’immobilismo, l’allestimento di Filippo Dini (sul palco con Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe) racconta il declino di una società e di un’epoca.
Un classico della letteratura russa. Una scenografia grigia. Un impianto registico tradizionale. Tutto sembra rigore formale, cristallizzato dalla formazione accademica degli attori. Lo spettacolo dura tre ore. Ma il timore che tanta classicità sia indizio di un passatempo greve, dura un attimo.
Il sipario è aperto quando il pubblico entra in sala. Frinire di cicale. Le note di pianoforte di Arturo Annecchino (Luca Annessi assistente) creano un’atmosfera rarefatta. Luci sul palco e in platea. Filippo Dini alias Ivanov è già in scena, quasi accasciato. Eppure questo inizio soft crea una messinscena rapida, capace di rivitalizzare l’impianto narrativo di Čechov basato sui monologhi. Grazie anche alla traduzione di Danilo Macrì, Dini (aiutato alla regia da Carlo Orlando) sfuma la componente evidentemente troppo psicopatica del protagonista. In Ivanov sono già presenti molti temi della poetica più matura di Čechov. C’è l’anima candida di una donna (la sempre impeccabile Sara Bertelà) logorata dalla tisi e da un amore mal riposto. Ci sono le illusioni, che danno consistenza ai sogni o agli incubi: oltre all’amore, la bellezza, il suicidio, la morte, l’eternità. C’è un mix di satira e riconoscenza verso i medici, presagio di quello che sarà l’infelice esito terreno dello stesso Čechov.
Collerico e aspro, il personaggio di Ivanov fa parte di un filone letterario europeo dell’Ottocento in cui il protagonista è proprio l’uomo senza qualità che non sa applicare le proprie energie alla vita. La sua originalità risiede nella lotta tutta virtuale e velleitaria per non soccombere al destino e alle proprie nevrosi, ai limiti, che si traducono in meschinità. Le aspirazioni intellettuali di Ivanov, unite al senso d’impotenza, fanno di lui un eroe negativo, intorno al quale si muove un’umanità senza ideali e senza futuro: un microcosmo in cui ognuno tenta di sopravvivere alla noia interiore e guarda al passato con pietosa indulgenza. Nel riverbero dei fuochi d’artificio in lontananza, nell’odore caduco e pungente di candele accese o spente, emergono figure grottesche che si logorano a vicenda.
Uno spettacolo senza sbavature. Pasquale Mari disegna luci introspettive. Il movimento scenico diventa fluttuare della scenografia, con lo spazio che si dilata, restringe e ribalta, a creare vari ambienti, interni ed esterni.
La scena (curata con i costumi da Laura Benzi) viene a più riprese rivoltata come un calzino. Si ride per non piangere. I personaggi si muovono tra registri estremi. Sono ebeti dall’incedere parkinsoniano. Misantropi, che avanzano con l’aria da buffoni. Nobili dismessi, in libera uscita da finanze, moralità e bon ton.
Il movimento scenico mai fine a se stesso rende la pièce allegra. Le conferisce un estro a tratti carnascialesco. La tracimazione farsesca dei personaggi non ne intacca lo slancio vitale. Di questo variegato affresco umano apprezziamo il minuto realismo, che è anzitutto vivacità dei sentimenti e delle emozioni.
il commento di sardelli mi ha fatto rimanere senza parole, davvero ben fatto,mi h fatto venir voglia di andare a vedere lo spettacolo che ha commentato.