MARTINA VULLO| Immaginiamo l’Amleto shakespeariano, isoliamone i personaggi e trattiamoli come stanze (camere cinque/seicentesche quindi piuttosto antiche… forse impolverate). Supponiamo di attraversarle e guardarci dentro e ricerchiamo al loro interno le componenti che risuonano con il nostro percorso personale e professionale. Immaginiamo ora di presentare il risultato di questa ricerca in divenire ad un selezionato pubblico al teatro delle Moline: una piccola e accogliente sala situata al centro di Bologna. Concluso l’esercizio saremo in grado di avere una vaga idea del lavoro portato avanti da Marco Cacciola in Io sono. Solo. Amleto.
Il bianco predomina nella scenografia data da un telo frontale e due grandi sacchi alla profondità dei lati. Il performer (che è anche lo scrittore e direttore della scena) veste invece in nero con pantaloni comodi e t-shirt maniche corte. I piedi sono scalzi. Le luci abbracciano scena e platea rafforzando il messaggio d’esordio dell’attore che, ponendosi in dialogo col pubblico, parla di un teatro privo di confini, dove esecutore e spettatori compartecipano al determinarsi dello spettacolo.
Evidentemente chi ci parla pensa lo spettacolo come un evento: concezione oggi sempre più dominante e figlia della svolta performativa che ha avuto luogo negli anni ’70, cambiando radicalmente (con nomi quali Schechner o Grotowski) il modo di pensare la scena.
L’attore si scusa con le persone colte e intellettuali le cui aspettative potrebbero essere deluse. Parla in terza persona dell’autore e dell’iniziale sforzo per la costruzione del proprio lavoro, dopodiché si lancia in una serie di movimenti liberi che, accompagnati da una musica di percussioni, fanno da soglia fra l’iniziale prologo e l’entrata nel dramma shakespeariano.
“Anche i morti hanno gli occhi” recita Cacciola muovendo le mani da sinistra a destra: il gesto sembra rimandare ai titoli scorrevoli dei programmi in tv. Le luci puntano l’attore che si muove avanti e indietro, raccoglie della terra da uno dei sacchi e la lascia scivolare lungo il pavimento. Siamo di fronte al personaggio del re assassinato, che dopo aver ripercorso nella mente il momento della propria sepoltura, manifesta con forza il desiderio di vendetta. Sensazioni di odio e agitazione colpiscono fisicamente gli spettatori attraversati dal respiro asmatico che spezza le parole dell’attore. La totale assenza di movimento conferisce ulteriore forza alla phonè.
La trama non ha concatenazioni logiche: i personaggi sono isole e i monologhi sono legati da un montaggio che ricorre a danze, luci e proiezioni video, per sancire il passaggio da una scena all’altra.
Costante il principio di alternanza fra momenti drammatici e leggeri: il Polonio cabarettista che coinvolge ed intrattiene il pubblico, ironizzando sulle piccole incombenze imposte dalla paternità, stride ad esempio con la successiva e silenziosa danza di morte della figlia Ophelia.
Amleto ci appare nel buio di una stanza. Illumina dei versi che riflettono su se stessi e precisamente sul loro essere esperienza che deve incarnarsi nel lettore.
Centrale il tema della paternità che si estende al rapporto fra i governi e i loro disinteressati leader. Emblematico il video alla MTV in cui politici di culture diverse (alcuni dei quali incarnati dall’attore), pronunciano parole del dramma con fare retorico, nelle rispettive lingue di appartenenza. In fondo “basta abbinare al giusto volto uno slogan convincente” ed il gioco è fatto!
Claudio ci appare di spalle, inginocchiato nell’atto di una preghiera che non ci commuove. Sarà per la bombetta ed il bolero che ne fanno una macchietta o per il buffo gesticolare e la parlata in napoletano (omaggio a De Berardinis cui è rivolta anche una dedica sui volantini in sala). Se l’abilità dell’attore nel dare vita al “personaggio marionetta” è indiscutibile, l’introduzione dell’elemento dialettale quasi nel volgere a termine del dramma, può risultare un po’ spiazzante. La situazione si complica ulteriormente con il discorso sociologico che contrappone le vecchie generazioni edipiche a quella attuale e narcisistica che invece di mangiare il padre si suicida inseguendo miraggi irraggiungibili.
Il dramma è saturo di stimoli che non hanno tempo di sedimentare e cedono già spazio a nuovi temi, in un meccanismo che ricorda vagamene il modo di fare dei Babilonia Teatri, la cui poetica si fa però volutamene specchio dell’attuale società e della logorrea di informazione che la caratterizza: un’informazione ridondante come la formula “essere o non essere” pronunciata da Amleto e ripetuta in forma frammentata da voci atopiche che riecheggiano nella la sala, mentre l’attore con parole quali “madre”, “padre”, “figlio”, “vivo” o “morto”, fa da contrappunto.
Il personaggio della regina fa capolino da una struttura a forma di campana, che introdotta al centro della scena e coperta da una stoffa bianca, restituisce l’idea di una grande gonna. Il performer, arrampicandosi dall’interno, emerge a mezzo busto. Il petto è nudo. Il viso è nascosto da una maschera neutra e malgrado le braccia si muovano libere, dà l’idea di una marionetta, per via dei fili a cui è legato.
Abbiamo di fronte una donna che vive nella propria campana di vetro e i cui movimenti sono manovrati dal potere di cui si è tanto parlato? O l’utilizzo della maschera, l’enfasi sulla respirazione diaframmatica e i fili del burattinaio, vogliono tradursi semplicemente in un omaggio al teatro? In fondo come dice la regina “tutti pensano di sapere”, ma non è questa l’idea di Cacciola che conclude lo spettacolo con il “monologo del non so” di Mariangela Gualtieri.
La vera conclusione, però, non coincide con lo spegnersi delle luci, l’applauso del pubblico e gli inchini dell’attore. Il vero epilogo probabilmente avviene con la stretta di mano fra attore e spettatori, che sancisce l’attraversamento di una soglia già annunciata come uno dei temi portanti nel titolo dell’opera.
Gli stessi punti che delimitano Io sono. Solo. Amleto. sono collocati come delle soglie che legano e separano al contempo le tematiche dell’identità, della solitudine e dell’arte. Nel magma di una rappresentazione priva di gerarchie tematiche, la costruzione del senso è affidata allo spettatore.
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