ROBERTA LEOTTI | I primi arrivati, la famiglia Musetti da Borgotaro, si ritrovano impreparati ad affrontare le difficoltà di inserimento; Saffron Hill, Clerkenwell è una zona poco raccomandabile di Londra, infestata da ladri e dove la gente vive in ambienti malsani e fatiscenti.
Dopo aver scritto un libro sul tema “A Better Life” Penny Culliford firma la drammaturgia di questa pièce diretta della talentuosa Nadia Ostacchini (Tricolore Theatre Company) e di recente in scena al Pleasance Theatre di Londra, che affronta il tema dell’immigrazione visto attraverso tre generazioni di una famiglia di immigrati.
Pensata per il 150esimo anniversario della visita di Garibaldi a Londra e altre ricorrenze legate alla nascita dello stato italiano, lungi dall’essere triste e retorica, questa della Ostacchini è una produzione brillante, nella cui narrazione l’italiano è uno strumento ambivalente, come sempre per chi emigra: arma a doppio taglio e confine fra emarginazione e conferma dell’identità, usato per schernire gli immigrati in certi passaggi e per sottolineare la tragicità in altri dialoghi tra i protagonisti.
In questa Londra che sembra così affine a quella di Oliver Twist di Dickens, il farabutto padrone di casa dei Musetti ripara la finestra (elemento predominante dell’allestimento scenico) buttandoci su uno straccio in malo modo, e sempre in questa prima parte, il corteggiamento tra Rosa e Vincenzo comincia con un pacchetto contenente insetticida.
Il tutto reso ancora più esilarante dalla gestualità e dall’ accento volutamente marcato degli “Italians”, qui interpretati dagli attori: Anthony Comerford, Edmund Dehn, Maeve Leahy, Roseanna Frascona e Fed Zanni. Si cerca il pubblico, consapevoli sia un affresco che ha a che fare con una comunità che infatti non tradisce e riempie la sala: sale volutamente l’ironia quando si trattano vicende storiche molto sentite dalla comunità italiana a Londra.
Al attorno al tavolaccio del tugurio a Saffron Hill nella prima parte, divenuto in seguito il bancone di una gelateria, la comunità apprende quanto riportarono le cronache dell’epoca. E molte sono le testimonianze rielaborate e qui riproposte della seconda Guerra Mondiale; la tragedia dell’Arandora Star in particolare, domina la seconda parte della drammaturgia, altresì marcata dalle nenie quasi sussurrate che gli attori intonano tra una scena e l’altra.
La nave in rotta verso il Canada con gli internati della guerra affondò nel 1940 portando con se’ oltre 800 passeggeri di cui oltre metà italiani, gran parte immigrati italiani residenti nel Regno Unito.
In questo contesto, le luci di Edmund Sutton risultano fondamentali per il pathos della scena, riuscendo nell’impresa quasi epica di riuscire a scolpire ambienti di vita, anche considerando la presenza di imponenti travi che da certe angolazioni, possono compromettere il disegno luci e lasciare zone in ombra.
La terza parte riporta nuovamente leggerezza allo spettacolo pur sfiorando temi controversi come l’aborto e le conquiste dei movimenti delle donne nel secolo scorso: esilaranti le scaramucce tra un “tradizionalista” fratello maggiore e la giovane sorella o quelli con l’amico sciupafemmine che la vuole corteggiare. I capelli alla Twiggy e minigonna non eviteranno alla giovane progressista di capitolare come altre prima di lei, in un matrimonio riparatore.
A tratti la vicenda pare poggiare su elementi un po’ didascalici, che si cerca di bilanciare con l’ironia sociale. Sempre da considerare, in questo tipo di allestimenti, il rischio di guardare un po’ troppo al pubblico nelle soluzioni drammaturgiche, cercandone per così dire lo stomaco, l’emotività. Ma a volte anche rinunciare ai voli pindarici di drammaturgie “troppo contemporanee” può riservare la sorpresa di storie ben ritmate e vive.
Piccolo neo di questa bella produzione sono i lunghi cambi scena: il rimedio per queste interruzioni forzate, sono stralci di registrazioni radiofoniche e canzoni del tempo, che costituiscono un espediente introduttivo alla parte successiva.
Comunque la cosa pare non pesare particolarmente agli spettatori, premiando con un sold out di tutte le programmazioni la produzione di Nadia Ostacchini, consapevoli che alla fin dei conti, la figura dell’immigrato nell’immaginario collettivo non si discosta poi molto da quella attuale; le accomuna la tenacia ed il senso di appartenenza ad una bandiera, ahimè tante volte bistrattata da chi resta.
(Si ringrazia per le foto: Paddy Gormley e Islington Local History Centre)