LAURA NOVELLI | Affogano in litri di alcol il loro disagio di esistere i protagonisti della pièce “Villa Dolorosa. Tre compleanni mancati” della giovane autrice tedesca Rebekka Kricheldorf (classe 1974), lavoro ideato nell’ambito del progetto Fabulamundi Playwriting Europe 2014 e visto al teatro Vascello di Roma nel quale Roberto Rustioni dirige un bel cast alle prese con una rilettura contemporanea delle “Tre sorelle” di Cechov dove l’immobilismo e l’arrendevolezza nei confronti del destino cedono il passo a un generale senso di disfatta, decadenza, svilimento valoriale ed etico. Siamo in Germania, nei nostri tempi. Un salone modernamente arredato è il ring sul quale si combatte questa disfatta personale e familiare che, pur se sostenuta da picchi di sagacia in linea con l’amara levità cechoviana, fa pensare a spietatezze psicologiche degne di testi quali “Chi ha paura di Virginia Wolf?” di Edward Albee o “Il compleanno” di Harold Pinter e a pellicole come “Festen” di Thomas Vinterberg.
Anche qui infatti assistiamo al crollo di un interno borghese fotografato in tre successivi compleanni di una delle sorelle, Irina, e al crollo – tanto più – di una società fragile, confusa, priva di sicurezze e di porte aperte sul domani. Probabilmente però, anche in un’epoca più solida, i nostri personaggi sarebbero sempre stati vittime della loro educazione colta, della loro snobistica visione della vita, del loro esasperato intellettualismo. Mentre, al di fuori di questa villa immersa nel verde di un giardino via via sempre meno curato (altra eco cechoviana), vibra un mondo che non sembra poter intaccare la disperata infelicità di Mascha (Emilia Scarpati Fanetti), Irina (Eva Cambiale), Olga (Federica Santoro), del fratello Andrej (Gabriele Portoghese), della cognata Janine (Carolina Cametti) e dell’amico Georg (lo stesso Rustioni). Eppure quel mondo – questo mondo – è lo specchio nel quale desideri e velleità, frustrazioni e paure si riflettono per tornare indietro come raggi violenti e autodistruttivi.
Delle tre sorelle solo la quarantenne Olga, una straordinaria Santoro capace anche in questo spettacolo di una naturalezza nervosa assolutamente credibile e vera, svolge un regolare lavoro (insegna in un liceo e poi ne diventa preside) e dunque “vive”, pur se mal sopportando la sua stessa vita, i colleghi, gli allievi. Mascha è una donna bella e inquieta che non tollera l’uomo mediocre che ha sposato e che si lascia andare ad una storia ambigua con Georg, per poi tentare il suicidio tagliandosi le vene (impossibile non riportare alla memoria l’immagine della “donna con i polsi tagliati” di Heiner Müller) quando quest’ultimo partirà per la Svezia. Irina è una giovane studentessa universitaria che oscilla tra la filosofia, la sociologia e le scienze naturali rincorrendo il sogno di un amore con un ideale maschile che non le risulti troppo “vuoto”. C’è poi Andrej, scrittore fallito che si fa autogol mettendo in cinta una giovanissima ragazza di umili origini e inchiodandosi all’obbligo di sostentare dei figli piccoli. E c’è Georg, amico di Andrej e capo, “suo malgrado”, di una ditta di imballaggi che ha sposato ad una donna psicotica capace di tentare di uccidersi ogni qual volti lui provi ad allontanarsi dal nido familiare.
Nessuno dunque, tranne forse la genuina e pragmatica Janine, possiede una via di scampo. Conviene che si accontentino di uno sballo momentaneo: qualche nota rock sparata a tutto volume, qualche bicchiere di troppo e l’urgenza di dire – e di dirsi – diventa il corpo di una vicenda intima, che esplode dentro l’animo dei singoli personaggi per poi implodere di nuovo e ricominciare ogni anno, ogni volta, da capo. Nulla infatti cambia veramente e nulla arriva a travolgere le loro vite. Proprio come in Cechov, ma in modo ancora più deterministico, queste donne e questi uomini del terzo millennio ci appaiono infantili, acerbi, viziati, immobili, spacciati.
Non è un caso che la regia sobria ed intelligente di Rustioni faccia leva essenzialmente e principalmente sulla resa interpretativa degli attori. Dentro i confini ben delineati di un dramma da camera, i protagonisti di “Villa Dolorosa” si muovono come esili burattini di vetro destinati a infrangersi contro le loro stesse manie. Che sono poi le nostre manie. Motivo per cui questo illuminante quadretto del nostro oggi rappresenta senza dubbio uno spettacolo (lo produce Fattore K in collaborazione con l’associazione Olinda /Onlus e Cadmo/Le vie dei festival) prezioso e assolutamente consigliabile: un testo scritto con forte maturità espressiva (sebbene qualche taglio avrebbe forse evitato il rischio di un’eccessiva ripetitività), cui corrisponde un disegno scenico coeso e fluido. Ogni tanto si ride. Ma basta poco per avvertire, dentro questo stesso riso, la voglia di gridare e di piangere.