Indigenous - dramma sonoro, Barokthegreat al NID
Indigenous – dramma sonoro, Barokthegreat
VALENTINA SORTE | Nella complessa mappatura della “nuova danza italiana” tentata da NID, la Nuova Piattaforma della Danza Italiana, non è facile capire quale posizione occupi Barokthegreat, il giovane gruppo veronese formato dalla musicista Leila Gharib e dalla performer Sonia Brunelli. La loro ricerca sembra collocarsi nelle “retrovie” della danza, sicuramente più a confine con le performing arts, ma i loro lavori alimentano e spostano la scena coreutica verso nuovi paesaggi ritmici e mentali.

Il lavoro presentato a Brescia, “Indigenous – dramma sonoro, si propone come una vera esperienza immersiva e notturna, sia per i suoi interpreti che per il pubblico. Diversamente dalle produzioni precedenti (come The Origin, Barok e  Fidippide), in Indigenous Leila Gharib e Sonia Brunelli si avvalgono per la prima volta della collaborazione di altri artisti: Dafne Boggeri, Simona Rossi e Francesco Brasini. Sono loro cinque gli “indigeni” della scena. Scena che è pura sintesi di movimento e suono.

Non è un caso che il titolo alluda così esplicitamente alla dimensione acustica della performance. Pur in un’atmosfera psichedelica e stroboscopica, il lavoro attinge infatti agli immaginari ritmici del rituale e riesce a unire sonorità elettroacustiche (Francesco Brasini alla tastiera) alla tribalità delle percussioni (Leila Gharib alla batteria), incalzando ostinati ritmici e strutture modulari. È il suono – come colpo battente o come frequenza – a saturare lo spazio, calibrandone la densità e trasformando i performer in corpi rilevatori. Il risultato è una drammaturgia guidata dal suono.

Se Fidippide focalizzava l’attenzione sul passo del maratoneta, traducendolo in un moto rotatorio paziente e spossante, foriero di visioni, Indigenous intercetta invece “la necessità biologica dell’impulso espressivo” e porta in scena un flusso energetico, potente e primitivo. E se da una parte si insiste su un’espressività istintiva, e cioè sull’esserci/farsi di quel dato momento, dall’altra la ripetizione diventa il completamento di questa presenza.

Il luogo in cui agisce l’indigeno è proprio la scena, e già prima che gli spettatori prendano posto, una nota continua invade lo spazio acustico e performativo. Le luci presto si abbassano, lasciando un esteso stato di penombra, ad eccezione di alcuni coni di luce che illuminano, a destra e a sinistra i due musicisti, e in centro i passaggi della Brunelli. Per il pubblico è un esercizio all’oscurità, alla visione sensoriale. È un primo invito all’alterazione dello sguardo e dell’orecchio, a uscire dalla propria zona di comfort.

Nonostante il nero sia il colore predominante, una grossa tela sfrangiata si staglia sul fondo, lasciando intravedere tra una fessura e l’altra delle lame di luce. Luci colorate – rosse, blu e gialle – che irradiano il palcoscenico. È da qui che entrano ed escono le tre giovani performer, esplorando ripetutamente il perimento del palcoscenico secondo diverse direttrici: verticali, orizzontali, oblique. L’elemento che accumuna i diversi attraversamenti è la torsione. Il movimento inizia con una oscillazione continua e ritmata delle spalle, per poi scendere al resto del corpo. Il pubblico assiste alla reiterazione di sequenze ritmate, a combinazioni geometriche (a due, a tre) che alternando rigore e liquidità, portano allo sfinimento della figura e all’allucinazione del gesto.

Barokthegreat al NID
Barokthegreat al NID
Lungo i due atti di cui si compone questo dramma sonoro – “lo sbaglio nel saluto” e “contro il morso del rettile” –  la scena si fa sempre più densa, diventando un vero luogo di transito che ridisegna la geografia del Teatro Sociale e quella del pubblico in sala, a cui non è chiesta un’adesione intellettuale ma una partecipazione “sensibile”, istintiva. Peccato che la conformazione della sala bresciana non abbia aiutato questo incontro. Ma la bellezza del finale resta indiscussa e condivisa. Sul fondo appare una tela abbagliante e sfrangiata (come quella nera), fatta di fibre metalliche e rifrangenti che trasformano il palcoscenico in uno specchio. Un bagno di luce che attrae e inghiotte i cinque indigeni, lasciando la scena vuota ma viva, ancora pulsante.