ANGELA BOZZAOTRA | Sesta edizione: la rassegna Digital Life del Romaeuropa Festival pone al centro della programmazione artistica la luce e le sue declinazioni sperimentali. Attraversando più discipline e sperimentando nuove tecnologie, la mostra rinnova la partnership con il Centro Le Fresnoy per le arti contemporanee e inaugura la prima collaborazione con il Festival di Arte Digitale Elektra del Québec, come larga parte degli artisti ospitati dalla rassegna che ha luogo in modalità permanente dal 10 Ottobre al 6 Dicembre negli spazi della Pelanda al Museo Macro. Ed è qui che assistiamo alla presentazione delle opere degli undici artisti, digitali e visivi, di Luminaria: giovanissimi o maturi, che espongono i propri lavori spiegandone i concetti sottesi e le tecniche impiegate per la progettazione.
A cominciare dalle installazioni interattive, che vedono come protagonista concettuale il “respiro”; come massa di aria emessa, infatti, la respirazione umana può, di fatto, interagire con un’opera di videoarte, come nel caso del Tourmente di Jean Dubois, dove è possibile telefonare alle persone mostrate in video e soffiando nel proprio dispositivo provocare lo scomporsi delle loro acconciature ed espressioni. Ispirata alla video-ritrattistica che ha come antesignano Robert “Bob” Wilson, Tourmente è una manifestazione effettiva delle possibilità del futuro della tecnologia, che vede il fruitore partecipare attivamente all’opera d’arte.
Il medesimo mood è nell’installazione Breathless dell’artista russa Alexandra Dementieva. All’interno di tre gabbie circolari, sono posti degli anemometri, che raccolgono l’espirazione dei partecipanti e automaticamente cancellano (attraverso un meccanismo elettronico) delle parole che compaiono su piccoli monitor posti ai piedi delle sculture. Attraverso un’indagine parole più digitate su Google (trovandosi in Italia lo studio è stato adattato alla versione nostrana del motore di ricerca) la Dementieva fa scorrere sul monitor sinistro termini corrispondenti a stati d’animo quali paura, desiderio e così via; sull’apparecchio al lato opposto invece si leggono le parole chiave collegate, come automobile, guerra, immigrazione. Con un montaggio concettuale, si partecipa alla cancellazione di questi “sentimenti virtuali”, come se il soffio fosse un muto enunciato linguistico di tipo performativo, riferito allo “spazzare via” queste brutture.
Altre installazioni puntano invece l’attenzione verso la sperimentazione della luce e del suono, utilizzando un sofisticato apparato tecnico al fine di rendere un’astrazione, una luce artificiale vibrante che si costituisce come autosufficiente, alimentandosi da sé e rendendo concreto un dato immateriale. Accade con Boîte Noire di Martin Massier: una sorta di esperimento del contrasto accentuato tra l’oscurità e la luce bianca, sparata. Camera oscura dove si manifesta l’apparizione di un lampo artificiale. L’uso del light engineering lo ritroviamo nella bella FREQUENCIES (LIGHT QUANTA) di Nicholas Bernier, dove l’artista attraverso lo studio della fisica quantistica, oscuro oggetto del desiderio per i digiunatori di materie scientifiche, utilizza cento nastri di plexiglas e una lastra di vetro per creare un effetto ottico cinetico. TemporAIR di Maxime Damecour invece mira ad ottenere un vero e proprio montaggio live di disegni effimeri. L’opera restituisce una sorta di cortometraggio astratto non su pellicola, esperimento che se pensato in grande porta ad immaginare la possibilità per l’immagine di uscire dalla costrizione della cornice filmica.
Di tutt’altra fatta è Idrofoni o lampade sensibili di Pietro Pirelli, installazione che si sviluppa in verticale, attraverso le enormi sculture che l’artista fa interagire con dei fonodendri circolari, in un riverbero di suoni ed effetti luminosi. L’ambiente creato è un insieme di elementi naturali, come canne di bambù, e di metalli, come la sega circolare e le architetture in alluminio. Visivamente di forte impatto, l’installazione è stata concepita prendendo spunto dai “canti gregoriani”, ragionando sulle capacità del suono di attraversare lo spazio; come un sasso in acqua crea molteplici cerchi, così il suono diffondendosi crea più gradazioni, da Pirelli sperimentate attraverso gli idrofoni, o microfoni concepiti per andare sott’acqua.
Tra le performance presentate, in evidenza Inferno di Bill Vorn e Louis-Philippe Demers (presente anche con l’interattiva The Blind Robot). Sembra di trovarsi sul set di uno di quei film di fantascienza di ultima generazione, si pensi a Ex Machina o ad Elysium. In quest’ultimo, il protagonista, malato terminale, per salvare il pianeta dai robot malvagi, deve indossare un’esoscheletro robotico per supplire alla sua decadenza biologica, e acquisire le stesse facoltà dei suoi nemici. In Inferno, le imbracature meccaniche, come ci racconta Bill Vorn, “non sono concepite per aiutare le persone, ma per imporgli dei movimenti”. La tecnologia dunque è vista qui (e il titolo lo sottolinea apertamente) come un fattore socialmente negativo; le macchine ci controllano, ci impongono delle azioni, ci schiavizzano. Per esprimere scenicamente questo concetto, in Inferno i visitatori, volontari, possono partecipare all’esperimento che consiste nell’indossare (con cautela) gli esoscheletri che pendono dal soffitto e venire letteralmente comandati da questi nell’esecuzione di una coreografia di movimenti, al ritmo di musica industrial e luci stroboscopiche. Siamo nel pieno degli anni Novanta, dei Mutoid, della Fura Dels Baus, di quel genere distopico e che vede l’ibridazione del corpo/macchina. Donna Haraway e Blade Runner, passando per i concerti dei Kraftwerk e un tocco di Nine Inch Nails. Sembra impossibile sconfiggere la macchina: il corpo umano è oggettivamente troppo debole, non può nulla contro un colosso di alluminio e acciaio. La realtà sociale che hanno in mente Vorn e Demers ne esce fuori sconfitta nel rinnovato sovvertimento dei termini: è la macchina che danza, una danza poco graziosa, ma che segue un preciso sincrono e un preciso schema. L’umanoide come stato liminale sembra dunque non ancora metabolizzato da parte degli autori canadesi, che forse per età anagrafica, forse per pertinenza di campo di studi (Demers è professore di ingegneria robotica in Québec) seguono quella linea estetica che da Asimov in poi indaga il piacere, sotteso all’essere umano, di essere controllato, non lasciando intravvedere alcuna risoluzione se non la regola, assai antica, che è meglio conoscere bene il nemico per tentare (invano) di sconfiggerlo.
Digital life 2015 è una grande vetrina-laboratorio, dove l’opera digitale è intesa come incontro tra tekné e concetto, esposizione di un lavoro di ricerca sottile e visionario, che se ampliato e ben utilizzato può contribuire a cambiare le regole della scenotecnica e ad innovare l’estetica contemporanea.