FILIPPA ILARDO| I passi incerti di un lattante accostati a quelli altrettanto malfermi di un anziano, l’attesa della morte in cui si consuma la vita dei vecchi somiglia tanto alle prime scoperte dell’essere umano, al suo primo stare nel mondo.
Su queste analogie e differenze si fonda interamente l’impianto drammaturgico di Infinita, lo spettacolo della compagnia Familie Flöz, in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, nell’ambito di “Atelier -percorsi culturali”, un progetto culturale innovativo ideato da Corrado Russo – si apprezza in particolare, oltre alle proposte in cartellone, l’attivazione di laboratori di formazione del pubblico che mirano ad una fruizione più consapevole del linguaggio teatrale.
L’infanzia e la vecchiaia sono lenti d’ingrandimento in cui l’essere umano attraversa una fisicità straniante, al di sopra e al di sotto della normalità, sperimenta e amplifica le sensazioni che riceve dall’esterno, è in continua, perenne trasformazione. Sono due facce della stessa medaglia, uno specchio l’una dell’altra: il bambino, accompagnato dalla madre che non vuole rimanere all’asilo non è altro che l’ombra – lo spettacolo alterna anche momenti di struggente lirismo con il teatro d’ombre- dell’anziano che non vuole rimanere all’ospizio.
Tra pannolini e pannoloni, infanzia e vecchiaia sono accomunate da questa ingombrante, incombente presenza di un corpo non ancora o non più perfetto. Non cambiano nemmeno le dinamiche relazionali, i piccoli dispetti che innescano il meccanismo eterno delle gag della commedia dell’arte o della clownerie. Quello che sperimenta il gruppo berlinese è un teatro in cui il fisico è in grado di parlare senza parola, in cui le maschere sovradimensionate rappresentano una iper-espressione che, seppure fissata, è in grado di narrare e raccontare emozioni e sentimenti, un teatro scritto e narrato con il corpo, con il ritmo, la musica, la visione. Un teatro al “grado zero della comunicazione”, che trascende le parole e nel suo farsi si offre allo sguardo. Anche la musica, motore dell’azione scenica, attivatore di memoria ha un forte valore drammaturgico, la sagoma proiettata di una violoncellista che assiste, mentre suona, alla chiusura del sipario crea un’interessante analogia tra il teatro, la vita, la morte.
Metafore e analogie abusate, si potrebbe dire, ma non pensare, perché la grazia e l’ironia che investono lo spettacolo è davvero travolgente, non lascia spazio al pensiero, ma solo all’emozione. Il pubblico che gremisce la sala è in visibilio, resta incantato dalle immagini proiettate, divertito dalle acrobazie degli attori che sembrano bambini arrampicati su mobili giganteschi, rimane intristito da grigi, folli vecchietti, accasciati malinconicamente sulla propria vita.
Piccole cose ci aprono un mondo, come il tintinnio delle chiavi che accompagna l’infermiera di un ospizio con le stanze come loculi, anticamere della morte.
Se qua e là troviamo il montaggio drammaturgico un po’ sfilacciato e con qualche incursione di troppo di trovate esilaranti, il finale rappresenta invece, con estrema capacità di sintesi, l’idea della morte come salto a testa in giù in un abisso sconosciuto, verso il buio o verso la luce, verso una nuova nascita, l’attore sembra discendere verso un rettangolo di luce, con sopra una rosa, che rappresenta la tomba. Così, mentre la proiezione della panchina con sopra i quattro vecchietti, si stacca da terra leggera, leggera, perdendo peso, ci accorgiamo che forse la morte è solo un cambiamento di stato, un passaggio dal positivo al negativo, il rovescio della vita e viceversa.
Possiamo anche ignorare quello che c’è prima o dopo questo viaggio che è la vita, questa presenza umana nel mondo, fatto sta che l’inizio e la fine sono due estremi che si toccano, due poli che incorniciano la fine e l’inizio in un cerchio che si chiude, e questo è l’infinito.