MARTINA VULLO | 2 Novembre 1975: con le prime luci del giorno, all’idroscalo di Ostia, veniva rinvenuto il corpo di un uomo brutalmente massacrato. Di lì a poco si sarebbe diffusa la notizia: avevano ammazzato Pier Paolo Pasolini.
Sono trascorsi 40 anni da quell’avvenimento, ma la memoria di quel corpo è ancora fresca e le piaghe doloranti: a dimostrarlo è lo spettacolo SONO PASOLINI per coro a voci naturali e un lettore, andato in scena il 21 Ottobre all’Arena del sole di Bologna, per la programmazione del Festival Vie.
A Firmare la regia è Giovanna Marini che è anche la prima a fare ingresso in scena, accompagnata dalla direttrice del coro Arcanto, Giovanna Giovannini. Segue il “lettore” Antonello Pocetti e infine le 15 “voci naturali”.
La parola chiave è “semplicità”. Non ci sono elementi scenici, eccetto aste per microfoni, leggii e una chitarra. Tutti vestono in nero e Il coro è illuminato da una luce statica dai toni profondi. Un neon di volta in volta si posa sulla narratrice o sul lettore.
Giovanna Marini è una ricercatrice etnomusicale e folklorista che ha conosciuto Pasolini a Roma negli anni ’60, anni in cui costruì anche la sua notorietà come cantautrice.
Attraverso una narrazione molto autentica, sottolineata dalla cadenza dialettale del suo parlato e dalla vena di commozione che di tanto in tanto la fa incespicare, ripercorre tutta la biografia pasoliniana. Il coro, privo di accompagnamenti musicali, qualche volta la interrompe cantando le poesie in friulano de La meglio gioventù, così il racconto si arricchisce con la suggestione del dialetto che – come Pasolini amava spiegare ai suoi alunni – è molto più autentico della lingua italiana, perchè in grado di parlare attraverso il suono.
Il racconto non può che partire da Casarsa: paese legato ai ricordi dell’infanzia, delle vacanze, dei giochi e delle lunghe passeggiate. Un paese pieno di volti genuini e dove la natura resiste ancora ai processi dell’industrializzazione. Da questa Casarsa passiamo a quella degli anni ’40 in cui Pasolini inizia ad insegnare, a cui la guerra fa da sfondo e da dove parte arruolato il fratello Guido per non tornare più.
Si parla dei Turcs tal Friùl e delle contaminazioni biografiche con la tragedia, ma l’impressione è quella di un banchetto informale, dove degli amici confidenzialmente cantano canzoni dal sapore locale: come la preghiera friulana che accompagna la trama del dramma, in cui al fratello che parte in guerra si contrappone quello che resta a pregare.
Il lettore legge frammenti di Le ceneri di Gramsci. Il tema ricorrente è il confronto fra le nuove generazioni apatiche, esaminate nell’aspetto e negli atteggiamenti, e la generazione dei padri. È una lettura fredda, distaccata, che sembra quasi suggerire una distanza del Pasolini intellettuale rispetto a quello che ci viene raccontato. Ma è un’estraneità che viene meno con l’avanzare del racconto.
Mentre la biografia prosegue, condita da aneddoti ed empatia, narrazione canto e lettura si intrecciano progressivamente: cambia il tono del lettore e la narratrice inizia a confondersi col coro. Si passa dalla denuncia al trasferimento a Roma, all’ Accattone, fino alla morte, in un intrecciarsi dei tre elementi che si fa sempre più profondo.
Il lavoro della Marini nella storia del teatro pasoliniano si colloca all’interno di quegli esperimenti che da un decennio a questa parte hanno cercato la ricomposizione, collocando accanto alle classiche messinscene delle tragedie pasoliniane, una teatralizzazione dell’intera, eclettica opera pasoliniana, mettendola insieme per frammenti uniti da specifiche tematiche. Penso, per esempio, al lavoro di Punzo del 2004 in Pier Paolo Pasolini: ovvero elogio al disimpegno – diverso drammaturgicamente e tematicamente, ma basato sullo stesso tipo di assemblaggio – o per rimanere in tema di spettacoli cantati, a Eretici e Corsari con cui anche Neri Marcorè e Claudio Gioè, hanno calcato il palcoscenico dell’Arena del sole nel 2012, incrociando fra monologhi, letture e canzoni, l’opera di Gaber a quella di Pasolini.
A distinguere Giovanna Marini dall’immenso magma di questi moderni lavori è la semplicità del raccontare, l’assenza di retoriche e il messaggio cinestesico della lingua friulana dei cori: una formula in grado di provocare una forte commozione nel pubblico.
Suggestivo il momento finale, nel quale accompagnandosi alla chitarra, la voce dell’autrice, echeggia nel silenzio assorto della platea, intonando il Lamento per la morte di Pasolini.
Un silenzio rispettoso interrotto a metà del brano musicale, con l’illuminarsi delle balconate ai lati del palcoscenico, dove persone di diverso genere ed età hanno sostenuto con la propria voce il canto della donna, seguite dal coro e poi dal pubblico. Un grande momento all’insegna della comunità, andato a culminare nella standing ovation.