RENZO FRANCABANDERA | Ci siamo salvati con un crowdfounding. Sarebbe una di quelle raccolte fondi a cui partecipano gruppi di interesse per far sopravvivere le iniziative. E che adesso va di moda nel teatro un po’ impegnatello, quello che ancora crede all’arte che cambia il mondo ecc. Insomma gli illusi dell’arte che riescono incredibilmente a raccogliere fondi da persone ancora più illuse di loro per mandare avanti la baracca. Vi scrive un disperato della seconda categoria.
Contenti di esserlo e alla fatidica soglia del nr 17, quelli di Danae, mitica rassegna di arti performative basata a Milano e curata dal Teatro delle Moire che sostiene e promuove esperienze artistiche nuove della scena contemporanea, sfidano la malasorte, e senza fare come le compagnie aeree e gli alberghi, che tengono in dovuto conto la sfigologia numerica, si tuffano sull’edizione più scaramantica con piglio deciso.
E lo fanno sfidando innanzitutto il calendario teatrale, piazzando la nave da 5 a ridosso di tutte le altre che incrociano l’affollato mare di inizio stagione, in questa battaglia navale che è la caccia allo spettatore oggi. Da sempre collocato in primavera, tra marzo e aprile, il festival quest’anno si è trasferito in autunno, a cavallo tra ottobre e novembre, parallelamente all’apertura delle stagioni teatrali, occupando molteplici spazi della città: dal 27 ottobre al 14 novembre, e contro la numerologia con 17 compagnie, 17 spettacoli in 11 spazi teatrali e non, 51 artisti, e 23 repliche, di cui 5 prime nazionali e 1 anteprima; ma Danae non si ferma a “far vedere”: coproduce e mette in scena 6 spettacoli di cui 4 italiani e 2 stranieri, realizza 3 residenze artistiche, organizza 2 masterclass, 1 workshop e 1 lectio rivolti a studenti di danza, ma anche a persone interessate e curiose di teatro contemporaneo e di arti performative. Insomma un festival multidisciplinare e internazionale, unico in Lombardia riconosciuto dal Ministero e dalla Regione.
Abbiamo visto i due spettacoli in apertura: DRAGGING THE BONE di Miet Warlop, artista belga poliedrica e DIECI MINIBALLETTI di CollettivOCineticO, compagine italiana di successo che torna a Milano grazie a Danae con un nuovo progetto coprodotto dal festival stesso.
Parliamone in breve:
DRAGGING THE BONE è un lavoro in cui la Warlop porta in scena le sue esperienze di scultrice. La creazione di sapore performativo si anima delle sue opere in gesso, alcune fragili e altre più consistenti. Tutte, inesorabilmente finiranno praticamente in frantumi, in un’elegia della frammentazione, della rottura del canone estetico, dell’intero. Il rapporto fra canone e realtà è spesso oggetto delle parti più significative di questa creazione per immagini, in cui la Warlop con il suo corpo crea distonie, squarcia, distrugge quanto ha lei stessa realizzato in precedenza, crea installazioni per compiere gesti semplici ma agiti in modo anomalo, come quella in cui due spazzole per capelli infisse su tubi d’acciaio ad altezza d’uomo, vengono utilizzate in senso proprio con lei che ci scaglia sopra la sua lunga chioma.
Plastica e gesso si fondono in creazioni che come birilli andranno in frantumi. E lei stessa, con il corpo intrappolato in una gonna di gesso, rotolerà come una palla da bowling fino ad una schiera di birilli messi in fila sul proscenio, dopo aver faticato in ogni modo per infilare questa gonna rigida e senza alcuna proprietà elastica in un corpo cui la forza di gravità regala una taglia in più del necessario, motivo per il quale non riuscirà ad indossarla tirandola su stando in piedi, ma ci si dovrà infilare dentro sdraiandosi per terra in modo da ridurre il volume delle natiche.
Alcune idee sono divertenti, alcune proto-geniali, altre un po’ autoreferenziali. La sensazione finale è che la presenza dell’artista in scena, che si porta sotto i riflettori, finisca per prevalere un po’ sulle idee, creando un amalgama in cui però si avvertono i grumi.
Sensazione opposta è invece quella che si ricava dalla visione dello splendido DIECI MINIBALLETTI di CollettivOCineticO. Si tratta di un’opera capitale, diremmo centrale per la poetica di CollettivO, che ritorna sui temi delle sue creazioni recenti, la variazione sul tema, il senso della ripetizione, il canon per tonos, il confronto con il tempo e con la storia individuale, che diventa storia dell’arte, storia per l’arte. Il contenuto di immaterialità di quest’opera è talmente vario e si pone su piani così diversi del sentimento, che ricorre quella tipica difficoltà di raccontarlo, dovendo scegliere se perdersi nella minuziosa descrizione di ogni piccolo movimento o cercare di raccontare una sensazione più generale, sicuri però che non potrà abbracciare l’intensità piena di quanto visto.
Partiamo comunque da quanto visto: all’inizio, davanti ad un ammasso di piume posto davanti ad un ventilatore, la Pennini svolge, vestendo una tuta rossa e calzini di spugna con strisce rosse e blu, esercizi di danza e riscaldamento del corpo, su sottofondo sonoro di vento che soffia forte, esercizi ginnici sulla simmetria e l’equilibrio del corpo, sulla potenza e l’elasticità, animati dalla consueta ironia, suggestivo motore di surrealtà ludica, ma abbinato alla raffinatezza nell’esecuzione tecnica.
La seconda parte, dopo l’ingresso in scena, è proprio il caso di dirlo, di un drone che fa volare le piume per tutta la sala danzando un valzer, riporta in scena la Pennini in elegante body nero, alle prese con la sua storia, con
il suo sogno infantile di diventare coreografa, e con la confessione, al termine di un assolo su musiche barocche, di aver pensato e scritto per anni, nella sua infanzia, coreografie di diversa natura, alcune delle quali, per suo stesso dire, al limite del realizzabile. Il tutto raccontato distes per terra con il microfono che pende e scende inesorabile dal soffitto con lei che ci finisce sotto, e inizia a parlare come una bimba nel lettino, che si racconta.
La Pennini afferma in modo poetico il suo sogno di bambina, si rilegge per dare vita vent’anni dopo al suo desiderio, ma con le complessità e le consapevolezze del pensiero adulto. E l’adulto è un universo spesso di inibizioni, per gli esseri umani, piuttosto che di affermazioni di sé e della propria indole vera.
L’assolutizzarsi della sua storia personale prima ancora che artistica, vissuta da anatroccolo nero, forse, è attraversamento delle traversie del vissuto e delle difficoltà dell’arte, prima ancora che altissimo momento coreografico, con un finale curato con lentezza per poi esplodere in un gesto solo, assoluto.
Il fumo avvolge la scena, il suo corpo nudo dipinto di nero spicca un balzo con spaccata nel cuore degli spettatori, e in quel complicato sistema di desideri che tutti ci portiamo dentro, insieme ai fallimenti, alle cadute e alla voglia di realizzare compiutamente la nostra pura e semplice identità sensibile, cui spesso abdichiamo nel vissuto di tutti i giorni.