dragpenny opera 3RENZO FRANCABANDERA | E torniamo a Gay. O a Brecht se preferite. Ai tre soldi o al mendicante. Ma la sostanza non cambia. Dal 1728 in avanti quella di Macheath/Mackie Messer è la saga dei reietti, che raccontano vizi privati e pubbliche virtù del mondo ricco. E testimoniano di come la bassezza umana non faccia distinzione di censo.
Ne fanno una bella rilettura in questi giorni al Teatro dell’Elfo di Milano le Nina’s Drag Queens, una compagnia sorta quasi 10 anni fa intorno all’indagine sulle tematiche di genere ma che ha poi cercato una propria cifra stilistica nello studio del travestimento come maschera teatrale.
E piano piano affiora un linguaggio che diventa sempre più interessante.
Ecco quindi DRAGPENNYOPERA liberamente ispirato a The Beggar’s Opera di John Gay per la regia di Sax Nicosia è uno spettacolo per molti versi interessante, prima di tutto per la volontà di riscrivere il testo, affidando l’operazione a Lorenzo Piccolo, e poi perché inizia a superare gli artifici scenici su cui le Nina’s hanno lavorato in questi anni, prendendone spezzoni ma senza che questo costituisse l’ossatura di un allestimento che ha un’idea registica precisa e un’intenzione attorale che rimane salda anche al netto del divertimento che aveva connotato in maniera più spiccata le operazioni precedenti.

In una scena (pensata da Nathalie Deana) che è una sorta di teatro sventrato con i camerini a vista, gli attori protagonisti della vicenda interpretano cinque personaggi femminili intorno alla figura del candidato all’impiccagione e ricalcano con sostanziale onestà di intenti i passi dell’opera originaria e il gusto della commistione fra prosa e canzone che, partendo da Gay e passando per Brecht, ha decretato il grande successo dell’Opera del mendicante nei secoli.
Quella settecentesca di John Gay miscelava musica colta e canzone da osteria, e anche le Nina’s Drag Queens attingono al repertorio della musica contemporanea, fra colto e pop, continuando ad usare i playback (ma in maniera più misurata rispetto alle creazioni passate), pregevoli interpretazioni live e le musiche eseguite al piano da Diego Mingolla fra atmosfere di piano bar di periferia e riletture jazz di celebri melodie, tra pop ed espressionismo. Ne viene fuori un tappeto sonoro pregevole, che alimenta e si alimenta del testo, in un continuo rimandare che riesce a mantenere in equilibrio il confine della tragicommedia. Alcune sono vere e proprie chicche, riscritture talmente rarefatte da giocare con l’orecchio più raffinato, segnaliamo un Trottolino amoroso piano bar jazz davvero irriconoscibile.
I costumi di Gianluca Falaschi donano a questi personaggi di dannazione un’aria dark sadomaso, e bene sulle volontà della regia si inseriscono le coreografie di Alessio Calciolari, che insieme a Gianluca Di Lauro, Stefano Orlandi, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò interpreta la pièce.
In Dragpenny si leggono interessanti spunti di maturità della ricerca sui codici tradizionali della rivista e dell’happening performativo, che da anni interessano questo gruppo di attori e danzatori, e che ora fecondamente si sono spostati ammantando la rivisitazione di grandi classici, partendo da Checov con Il Giardino delle Ciliegie.

Qui, però, convince prima di tutto la regia che, pur non mondando la creazione dai barocchismi del linguaggio delle Nina’s, ha il coraggio di traslare il piano della presenza dei corpi travestiti da lettura di questioni più gender specific a maschera del teatro, tanto che ad un certo punto, sia per la forza dell’allestimento che del recitato si riesce anche a godersi le Nina’s oltre le Nina’s, e questo per quanto mi riguarda è un grandissimo risultato, perché valorizza la creazione e le individualità superando il mezzo espressivo, che per molti anni era stato il fine.

Invece con Dragpenny finalmente la “questione drag” diventa e torna ad essere, come giustamente forse deve, un mezzo. Uno dei tanti mezzi da esplorare da parte del gruppo di ricerca sul teatro. Certo, quello ancora dominante, la cifra di continuità con quello che finora è stato. Ma già la presenza dei camerini in scena smaschera il gioco e lo trasforma in occorrenza metateatrale. Sarà stata la giusta volontà di andare oltre, di non ripetersi, ma in Dragpenny si misurano agevolmente alcuni passi di maturità su diversi piani che, leggerezze e gayezze a parte, permettono di parlare di una creazione positiva e interessante. Con qualche divertissement recitativo e ammiccamento testuale in meno, per dare soprattuto al testo e  alla trama quella centralità e quel minimo di leggibilità ulteriore senza le ancora frequenti interruzioni off topic iconici in salsa pop, saremmo davvero di fronte ad una creazione inaspettata e ad un’Opera del tutto convincente, capace di superare gli stereotipi in cui a volte si finisce per chiudersi parlando di genere, per arrivare ad uno sguardo assoluto sulla società e sul testo stesso. Manca dunque pochissimo: il percorso delle Nina’s sta imboccando una direzione interessante.

Da vedere, anche per quell’alito (profumato) brechtiano che ai nostri lettori piace tanto…

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