SIMONA POLVANI |“Un danzatore non dovrebbe danzare, dovrebbe essere danzato”. Queste parole di Endo Tadashi, danzatore allievo di Ōno Kazuo, sintetizzano perfettamente la filosofia della danza butō.
Essere danzati e non danzare allude all’abbandono del corpo alla manifestazione di un movimento generato dal profondo, istintivo, emotivo, naturale e per questo necessario, di fronte al quale il processo decisionale, e la ragione che a tale processo presiede, si sospendono. È in tale abbandono della mente che trova spazio l’improvvisazione, come composizione istantanea e liberazione dai codici, Se tale pratica è una delle caratteristiche del performativo contemporaneo in senso lato, dalla vera e propria performance al teatro, dalla danza alla musica, essa è il fondamento del butō.
Dell’ideale sublime del “danzatore danzato” ho potuto fare esperienza di fronte alla danza butō del giapponese Masaki Iwana durante la performance straordinaria con cui ha chiuso la prima edizione del festival En chair et en son dedicato alla musica acusmatica e al butō, che si è svolto il 23 e 24 ottobre scorsi al Cube-Centre de création numérique d’Issy Les Moulineaux, alle porte di Parigi.
L’indagine sulle connessioni tra queste due forme d’arte, sviluppata a livello teorico attraverso seminari e un convegno, è stata realizzata a livello artistico in ventiquattro performance, frutto dell’incontro tra compositori contemporanei di musica acusmatica e danzatori butō, occidentali e giapponesi, che hanno danzato all’interno di un acusmonium, altrimenti detto orchestra di altoparlanti.
Se non tutti gli incontri ci sono apparsi particolarmente riusciti, quello di Masaki Iwana con il compositore Denis Dufour è risultato di una rarissima felicità.
Musiques utopiques, terzo movimento dell’opera PH 27-80 (2008, durata 32’14) dedicata al pioniere della musica concreta Pierre Henry (nato nel 1927), in occasione del suo ottantesimo compleanno, è il brano scelto da Dufour per la performance con Masaki Iwana. PH 27-80, realizzata a partire da ottanta suoni o sequenze brevi tratti da ventisette opere di Henry – da cui i numeri del titolo – compone un universo dai suoni sincopati, percussivi, che si ripetono in una forma ciclica, all’interno della quale operano variazioni ed elementi vocali, in un crescendo ipnotico, sciamanico e rituale.
Da questo habitat sonoro circolare – anche per la direzione avvolgente del suono diffuso dall’acusmonium – è sorto Masaki Iwana. Come in molta danza butō ha il corpo nudo con un minuscolo perizoma a coprire il pube; un filo sottile, quasi impercettibile, solca le anche. La sua nudità, tuttavia, rispetto alla tradizione, appare più nuda, poiché non è neutralizzata dalla pittura bianca con cui molti performer butō si dipingono il corpo. Il viso è parzialmente coperto – e lo rimarrà quasi per l’intera performance – dai lunghissimi capelli neri sciolti e da una mascherina bianca su naso e bocca, come se ne vedono indossare a molti orientali, giapponesi in particolare, contro l’inquinamento.
Nella penombra della scena disegnata da un cerchio pallido di luce, la danza di Masaki comincia a terra, da una posizione fetale. Con movimenti sincopati, il feto si apre, guadagna la posizione eretta e inizia la lotta febbrile, di tutto il corpo, contro la gravità. Corpo in continua estensione: tesi i piedi, sulle mezze punte tremanti, il bacino spostato in avanti, la testa rovesciata all’indietro, la schiena che si curva all’indietro, le braccia che oscillano, in avanti, poi in alto, si allungano, a toccare un immaginario cielo. Tutto il corpo è un arco, pronto a scoccare, attraversato da un movimento sussultorio, che si fa singulto, scossa, poi ancora onda, flessuoso e tirato. Ogni muscolo è in contrazione, senza tregua. Energia magmatica che si irradia da ogni recesso del corpo, dai capelli agitati, dalle falangi delle dita, dagli occhi nascosti, dalla bocca che avverti respirare. Quella che Masaki ci propone è una danza come perenne sbilanciamento, spinta, propulsione, tensione verso l’immobilità attraverso un movimento febbrile, incessante, tra la luce e l’ombra – spesso il performer occupa i limiti del cerchio di luce. Conquista della verticalità, sciamanica venuta al mondo, origine, ciclo, dismisura, in un corpo che trascende se stesso, supera la materia, e infine scompare. Non vedi infatti più un corpo d’uomo, bensì un moto incessante, un’energia senza fine, l’estasi della creazione e la dissolvenza delle forme immerse nella musica, il respiro, lo spasmo del primo respiro.
Quella mascherina bianca, allora, segno distintivo di una certa nipponicità, si distingue come elemento ecologico-politico, e alle porte della Conferenza sul clima 2015, a Parigi, tra poche settimane, diventare segno di protesta.
Per quanto ormai si possa essere assuefatti al corpo nudo, ogni volta che sulla scena è proposta la nudità, tento di non eludere la domanda: perché? Nell’esperienza del corpo danzato di Masaki Iwana, la nudità ha reso ragione di sé, come un’evidenza, affermando la sua necessità estetica e ontologica. Nel movimento che si autogenera, nella tensione spasmodica e nella presenza a se stessa di ogni parte del corpo, che costituiscono i principi del butō, il nudo appare come l’unica condizione che possa permettere al corpo di far percepire il suo respiro estremo, lo spasmo della irriducibile vitalità, nella lotta contro la caducità della materia. Siamo nudi di fronte alla vita come siamo nudi di fronte alla morte.
Masaki Iwana è tra i performer di butō più apprezzati attualmente in Giappone e a livello internazionale. Dal 1975, anno in cui ha iniziato la sua carriera di danzatore, si è prodotto in oltre centocinquanta performance.
A questo link è possibile ascoltare la musica di Denis Dufour.
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