VALENTINA SORTE | La Compagnia Ragli ha un certo fiuto per i titoli dei suoi spettacoli. Così dopo “L’Italia s’è desta” nel 2012 e “Panenostro” nel 2013, chiude la sua personalissima trilogia sulla ‘ndragheta con “Ficcasoldi”. Il termine è icastico. Non si tratta infatti di un semplice calco dall’inglese “Insert coin”, ma di una vera e propria metonimia. Individua un gesto che sta per un’azione. Un gesto-immagine. “C’est fait, j’ai fait l’image”. Ma in questo caso sarebbe meglio dire “il gioco è fatto”.
Sì, perché Rosario Mastrota (suoi il testo e la regia) racconta senza mezzi termini una storia di ludopatia. Il protagonista è un uomo senza nome, che costretto a chiudere la propria attività a causa della crisi, inizia a frequentare il bar di Ettorino. Seduto alle slot machines, l’uomo cede alle lusinghe del “vincere facile”, e finisce col perdere tutto. Ma proprio tutto. L’epilogo è piuttosto prevedibile.
Il pregio di questo spettacolo non sta evidentemente nell’originalità del plot. Al contrario, da un punto di vista drammaturgico “Ficcasoldi” segue una sorta di “Morfologia del giocatore” d’ispirazione proppiana. Oltretutto accelerata. La storia inizia infatti quando l’equilibrio iniziale è già spezzato, e segue un anticlimax. Il quid sta altrove. Seppur interessante e già affrontato brillantemente da altre compagnie – ne Lo splendore dei supplizi di Fibre Parallele, giusto per fare un esempio – il punto di vista del giocatore viene messo in secondo piano, per privilegiarne uno esterno. Allargando l’obiettivo, lo spettacolo si smarca dal microcosmo asfissiante del ludopatico e trova un respiro diverso.
Emerge così un macrocosmo, folto e connivente. Da una parte ci sono le organizzazioni malavitose che gestiscono il business delle sale giochi, “assoldando” i giocatori compulsivi – i cosiddetti ficcasoldi – per ripulire denaro sporco. Nella fattispecie, Nina Lettì. Dall’altra ci sono i baristi come Ettorino che trovano le slot machines più remunerative delle macchine del caffè e che, tra una partita della Casalese e l’altra, si fanno complici della Nina Lettì di turno. Non viene risparmiato nessuno: dalle persone più vicine e care, che all’inizio fingono di non vedere, alle forze dell’ordine che vedono quello che vogliono, e infine lo Stato, completamente accecato dalla Fortuna. La Compagnia Ragli riesce a toccare punte molto grottesche e mordaci, soprattutto quando rovescia gli slogan politically correct che invitano al gioco (ir)responsabile.
Nonostante lo spettacolo sia molto critico e lucido in questa lettura delle responsabilità personali e collettive, ci sono dei momenti di grande ironia e intensità che alleggeriscono il carico. Le scelte musicali (prima fra tutte “Ma cos’è questa crisi” di Rodolfo de Angelis) e le improvvise coreografie sono molto azzeccate, soprattutto perché accelerano il ritmo nelle parti forse meno riuscite. Non è da meno la scenografia curata da Zelia Carbone, che cattura l’occhio dello spettatore con delle insegne al neon e una luminosissima slot machine, e decide di collegare la sfera più intima e privata del gioco a quella più sociale e pubblica allestendo delle “mura” di Gratta&Vinci. Un contributo importante è dato sicuramente dall’ottima interpretazione di Gianni Spezzano, nelle vesti del barista, ma anche dall’energia Andrea Cappadona (il ficcasoldi) e dalla versatilità di Dalila Cozzolino (nel doppio ruolo della compagna e di Nina Lettì).
“Ficcasoldi” si rivela un lavoro piuttosto interessante, perché dà un taglio personale e non scontato a un tema un po’ abusato, riuscendo a dipingere il giocatore compulsivo non solo nella sua ingenuità e fragilità, ma inquadrando un disagio molto più generalizzato (e pronto a essere sfruttato). In questa capacità di “vedere e raccontare” ritroviamo la cifra stilistica che percorre l’intera trilogia. Meritatissimo quindi il Premio Giovani Realtà di Udine, assegnato alla Compagnia dalla Giuria Giornalisti e “vincente” la scelta del PimOff di inserirlo nella sua stagione, per festeggiare quest’anno i suoi dieci anni di attività.