LAURA NOVELLI | Un’immagine di donna morbidamente sensuale, esotica, allusiva, che si staglia in proscenio, silenziosa e ipnotica, girando con crescente velocità un ombrellino cinese appoggiato sulla spalla. Accenna un sorriso sempre più contagioso fissando il pubblico per svariati minuti con minuzioso vigore. Musica già alta. Pioggia di petali dall’alto. Microfoni e sedie pronti a prendere vita. Qualcosa di arioso e allo stesso tempo concreto, fisico, attraversa l’atmosfera inziale di “Made in China, postcards from Van Gogh” che, prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana, Leviedelfool ha presentato nei giorni scorsi nell’ambito del festival Teatri di Vetro 2015, tornando nel cartellone della vivace rassegna capitolina dopo la prova felice di “Requiem for Pinocchio” (era il 2013).
E se in questo nuovo, maturo, lavoro della compagnia romana (già nota per la ricerca attivata nella “Trilogia dell’Essere”) l’incipit si declina tutto al femminile facendo leva su un’ottima interprete (e cantante) quale la ventitreenne Claudia Marsicano, l’ossatura drammaturgica poggia sulle qualità performative di Simone Perinelli (anima del gruppo con Isabella Rotolo), qui particolarmente incline ad un certo nervosismo scenico e a continui passaggi di registro espressivo che scandiscono le tappe di un monologo a tratti ossessivo, a tratti lirico, a tratti folle, a tratti ironico.
D’altronde i “materiali” di partenza, rielaborati con illuminata originalità, rappresentano essi stessi una mappa di stimoli estremamente fluidi ed eterogenei essendo costituiti da alcune lettere del grande pittore olandese citato nel titolo (indirizzate a Theo, Emile Bernard e alla sorella Wilhelmina) e, ancor meglio, dalla capacità visionaria che lì si sprigiona entrando in relazione – o confliggendo – con le sue opere più note e con la mercificazione che oggi, in Cina come altrove, si attua della sua grande arte (ma direi dell’Arte in genere), negando valore all’unicità dell’atto creativo e (con)fondendo giocoforza i confini tra creatività e artigianato, opera e operazione commerciale.
Sarebbe tuttavia banale ridurre il nocciolo del discorso ad un fin troppo scontato paragone tra la potenza e l’autenticità della pittura di Van Gogh e, di contro, la serialità dimessa, sfacciata e kitsch delle cineserie odierne perché qui in realtà, secondo me, Perinelli (autore e regista oltre che interprete) ha costruito un “concerto teatrale” sul tema della perdita del centro, dello smarrimento umano, dello “smarginamento” valoriale ed emotivo in cui ci dibattiamo quotidianamente e in cui, tanto più, si dibatte oggi l’Artista (tema tra l’altro già trattato nel precedente “Macaron”).
Questa perdita del centro accompagna i passaggi più intensi del testo, laddove Perinelli/Van Gogh ragiona sul tema della perdita e dell’abbandono facendo un esplicito richiamo al dipinto “La sedia vuota” o sul senso della pausa o sulla follia stessa, richiamando l’episodio biografico dell’orecchio tagliato a sua volta trasfigurato in un altro celebre quadro di Van Gogh, “Autoritratto con orecchio bendato”.
Ma a ben vedere questa uscita dal centro innerva la struttura stessa dello spettacolo, pensato come un montaggio di momenti diversi, complementari e simultanei che assumono la forma di un mosaico di spunti, rimandi, metafore, situazioni affidate ad un Perinelli performer più che personaggio, intento ora ad inseguire la veemenza espressiva di un rocker e ora, viceversa, la pacatezza intima di un confidente. Accanto a lui la presenza forte anche se spesso silenziosa della Marsicano: è lei che apre la porta dell’Oriente; è lei che ci riporta alla globalizzazione economica dei nostri tempi (quale più chiara espressione dei un’ulteriore perdita del centro?); è lei che illustra i rigidi dettami di quella filosofia del Feng Shui secondo la quale, ad esempio, l’immagine che appendiamo nelle nostre case “trasmette le informazioni relative al soggetto rappresentato ma porta con sé anche la vibrazione emanata da chi l’ha realizzato”. E’ lei, ancora, che sdrammatizza la tragedia e la pazzia visionaria dell’Artista virando verso spiragli di sarcasmo e di ironia. Spiragli forse non tutti risolti (alludo soprattutto all’episodio dell’orlo con relativa uccisione del giovane sarto cinese) ma necessari ad un contrappunto tematico sostanziale.
Sottolineato dal costante (e persino ossessivo) tappeto sonoro/musicale del bravo Massimiliano Setti, qui si rappresenta insomma un sogno/incubo che è poi il sogno/incubo della fine dell’Arte. E non è un caso che Perinelli abbia anche il tempo – siamo ormai all’epilogo – di leggere uno stralcio del comunicato stampa in cui si annuncia l’azzeramento da parte della Regione Lazio del consueto finanziamento attributo a Teatri di Vetro. Segno dei tempi (duri) in cui la nostra cultura agonizza. Segno di quella miopia diffusa secondo la quale la creazione artistica non va più tutelata né difesa. Eppure un ombrellino cinese rimarrà sempre un ombrellino cinese. Anche se rassomiglia a un girasole di Van Gogh.