RENZO FRANCABANDERA | Continua con un buon riscontro di pubblico Autunno Danza, la rassegna di spettacolo dal vivo di danza e non solo, che prosegue fino ad inizio dicembre nel capoluogo Sardo e che sta portando un importante spaccato del meglio dell’arte coreutica italiana sull’isola.
Week end particolarmente densi gli ultimi due, con uno spaccato davvero interessante di nuove generazioni e grandi maestri, in un intervallo anagrafico e concettuale che va da Annamaria Ajmone a Virgilio Sieni, giusto per fare degli esempi.
Il festival sta sfruttando molte venues a disposizione in città, fra cui quella in cui SpazioDanza è residente insieme a Il Crogiolo, uno spazio all’interno del grande complesso della ex vetreria in località Pirri, che è da diversi anni uno spazio votato alle arti sceniche e che sta aumentando il numero di realtà che lo occupano, in modo sempre più interessante.
Lo spazio in questione, che ha ospitato le performance del primo week end di Novembre a cui ci riferiremo in questo articolo, è uno spazio ampio, interrotto nel centro dal vano scale che divide concettualmente l’ambiente unico in due aree senza tuttavia dividerle del tutto. Il soffitto a capriate lignee basse connota lo spazio creando delle americane naturali, spingendo comunque gli artisti ad una riflessione sullo sguardo dello spettatore. Senz’altro un luogo molto adatto alla dimensione laboratoriale, dimensione questa su cui la direzione vuole insistere.
Qui nel week end del 6-8 novembre si sono succeduti giovani artisti molto interessanti, in un dialogo ravvicinato fra la danza ed altri linguaggi, un esperimento risultato particolarmente felice nell’economia emotiva del festival. Si è partiti da Annamaria Aimone, il 6 novembre con il suo Tiny, ideale prosecuzione della ricerca iniziata con [In]Quiete , in una sorta di contrapposizione fra le intenzioni profonde dell’uno e dell’altro spettacolo, con il precedente più dedicato alle tensioni che riceviamo dall’esterno; Tiny invece descrive uno spazio mentale più intimo, ambientale, una sorta di ricerca di sé nell’hortus conclusus di pensieri interiori ma non innaturali.
In questo spazio, definito da alcuni cardi secchi che descrivono una vegetazione naturalistica sul fondo sinistro della sala, richiamata in proscenio da alcune altre piantine, la danzatrice agisce i suoi movimenti che spesso si fermano in estasi di contemplazione di sé nello spazio, quasi a guardarsi diventare tableau vivent. Funziona particolarmente in quest’ottica il dialogo con le musiche di Marcello Gori, che sono anch’esse piccoli richiami a memorie emotive, in cui si riconosce la natura ma anche il suono del treno ecc, e le luci calde, da pomeriggio d’estate di Giulia Pastore. Il tutto conserva un sapore volutamente artificiale e capace di cristallizzarsi in fermo-immagine che ricordano molto le impressioni coloniali di Michele Di Stefano, ad esempio. Il lavoro quindi lascia l’idea di un progresso del linguaggio in corso, che si sta confrontando con le ispirazioni più forti della proposta estetica che abbiamo in Italia in questo tempo, e che sa rimanere pulito e definito, obiettivi non secondari per chi fa arte e inizia con le proprie proposte.
Alla visione della Ajmone ha fatto seguito l’interessante proposta tutta vocale e sonora di Alessandra Giura Longo, Souffle, un’impressione sonico futurista durante la quale la musicista performer si percuote e cerca il suono in sé, attraverso sé, dentro di sé e oltre sé. Da recitazione di partiture à-la Cage fino a creazioni visuale-sonore di dialogo fra video proiettati ed elaborazioni sonore realizzate con il flauto, lo spettacolo attraversa e indaga davvero una gamma di potenziali diversissimi fra loro dell’espressività e dell’intelligenza creativa della protagonista, il cui sorriso naturalissimo e accattivante guida lo spettatore fra spartiti declamati in modo neofuturista a suoni di flauto che compongono in forma intervallata una sinfonia di armonie altre, tutte leggibili e percepibili come disordinarie. E questa sinfonia disordinaria (che nella seconda parte un po’ s’allunga in modo un po’ monocorde) lascia comunque un buon profumo di sé.
Sabato 7 novembre assistiamo invece alla creazione The fifteen project, concepita da Arno Schuitemaker in collaborazione con i danzatori Manel Salas Palau e Mitchell‐Lee van Rooij che interpretano la coreografia fatta di puntamenti con le dita e appoggi con i corpi, appuntamenti mancati con i sé e incontri non voluti con il corpo dell’altro, incontro e scontro, equilibri precari e sogno di conflitto intersecante, dove il proprio equilibrio è nella natura dell’altro. Abbiamo dunque parti di noi capaci di stare in piedi se non grazie a chi ci sta attorno? Quanta parte dei nostri equilibri è in ballo nella ricerca cui chi ci sta attorno, anche involontariamente, dà compimento? La quindicesima creazione di Schuitemaker trae ispirazione dalla teoria scientifica che ruota intorno alla scoperta dei neuroni specchio, e che ragiona su quella che è la relazione con l’altro da sé.
Uno spettacolo breve e capace di una bella intensità, amplificata dalla visione tutta teatrale che la Direzione artistica decide di proporre a seguire, ovvero l’intensissima interpretazione di Giorgia Cerruti del monologo dedicato alla vita di Zelda Fitzgerald.
Questo spettacolo ha una regia a tratti wilsoniana, che catapulta l’attenzione dello spettatore sui venti centimetri quadri che incastonano il visus intorno al volto dell’interprete in una carrellata emotiva fra passioni e follie al femminile capace di lasciare senza fiato, più ancora dell’intenso odore di rose che lo avvolge. Qui succede tutto. In quegli sguardi magnetici, in quelle espressioni, in quella parola, in quei gesti, quelle mani che accarezzano le irregolarità di un corpo normale fino a farle diventare seducenti.
La Cerruti ammalia in ogni istante di recitato, fin dalle battute iniziali declamate con una voce vecchia e innaturale in un buio di tomba, e porta con sé lo spettatore in un saliscendi fra paradisi e inferni rosa. Da vedere assolutamente.